La prima reazione alla notizia non è soddisfazione, ma incredulità: davvero finora un pilastro così importante della cultura mondiale non era riconosciuto dall’Unesco? Ora però, finalmente, c’è: la calligrafia araba è entrata nella lista che tutela la cultura immateriale dell’umanità. Un elenco in cui l’Italia, per fare un esempio, è riuscita a far entrare anche la ricerca del tartufo, le viti potate ad alberello di Pantelleria e “l’arte musicale dei suonatori di corno da caccia”, non aveva ancora trovato posto per un’espressione culturale e artistica che è alla base di manoscritti prestigiosi e di innumerevoli decorazioni artistiche diffuse su tutto il pianeta.
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La richiesta era sostenuta da un fronte di sedici paesi arabofoni, dall’Arabia Saudita all’Egitto passando per Giordania e Palestina, Marocco e Sudan, Libano e Mauritania. Tra i promotori c’era anche la Turchia, dove si scrive con l’alfabeto latino e l’arabo è usato solo a scopo decorativo, ma non c’erano Iran o Afghanistan, che pure usano le lettere arabe e hanno un’antica tradizione di calligrafia artistica e anche figurativa.
La proclamazione, annunciata a metà dicembre, arriva insieme ad un gruppo nutrito di riconoscimenti di tradizioni immateriali legate al mondo arabo e islamico. Tradizioni molto diverse tra loro, e nate in paesi molto lontani. L’impressione è quindi di una riparazione collettiva ad una parte del mondo trascurata rispetto alla massa di riconoscimenti collezionati dall’Occidente.
Un’altra new entry è Al Nauur, la ruota idraulica: se ne vedono ancora in funzione sul Nilo, ma l’idea era talmente geniale che un tempo anche le fontane di Versailles erano alimentate da una “noria”. Il modello presentato dall’Iraq all’Unesco è formato da ventiquattro colonne di legno che reggono altrettanti contenitori di terracotta legati con corde di foglie di palma. Un modello che deriva, praticamente senza modifiche, da quelle usate fin dai tempi della Mesopotamia e ancora in uso nella regione. Unica novità è che oggi quel macchinario nato per portare l’acqua dall’Eufrate alle campagne che lo circondano, viene usato anche per produrre energia elettrica.
È un tesoro culturale siriano, invece, il canto chiamato Qudūd Ḥalabīya (“ritmi di Aleppo”). Nato quasi duemila anni fa, e quindi pre-islamico, raccoglie un corpus di canzoni che uniscono una forma metrica andalusa (il “muwashshah") e testi in arabo classico con ritmi e melodie tradizionali della zona di Aleppo. Il risultato è un corpus musicale dalle radici colte ma dal successo molto popolare. La canzone più famosa, "Ya Tira Tiri Ya Hamama" (“Vola via, vola via mia colomba”) è stata interpretata anche dalla mitica cantante libanese Fairouz, mentre Abdallah Chahine ne arrangiò una versione per il “piano orientale” di sua invenzione.
Anche i fijiri del Bahrein sono una forma di spettacolo musicale, ma strettamente collegato alla danza. I suonatori siedono in circolo suonando tamburelli e altri strumenti tradizionali, mentre a centro si muovono i danzatori e il cantante solista che è anche il direttore dello spettacolo. È una tradizione relativamente recente – risale alla fine del 19esimo secolo – ma dalle origini tra i pescatori di perle dell’isola di Muharrap si è diffusa in tutto il Paese diventando, spiega l’Unesco, «un mezzo per esprimere il legame tra il popolo del Bahrein e il mare».
Entra a far parte del patrimonio Unesco anche il tatriz, il ricamo tradizionale palestinese «nato e indossato nelle aree rurali ma ormai usato in tutta la Palestina e nella diaspora». Ricamare insieme «è una pratica sociale e intergenerazionale, le donne si riuniscono per ricamare e cucire in compagnia delle proprie figlie». Il riconoscimento dell’Unesco ha naturalmente un grande valore politico e identitario per la popolazione della Palestina. Ma è anche un argine al pericolo di appropriazione culturale: con i suoi colori vivaci e i disegni stilizzati di piante e animali, il tatriz ha un fascino particolare ma è anche un modello facilmente imitabile. Il riconoscimento Unesco aiuterà a proteggere la proprietà ideale di un tipo di decorazione che negli ultimi anni è stata ripresa, senza alcun riconoscimento, da aziende di abbigliamento e disegnatori di stoffe e abiti in tutto il mondo.
È legato al mondo arabo e islamico anche il songket, lussuoso tessuto tradizionale riconosciuto dall’Unesco per la candidatura presentata dalla Malesia ma tipico anche dell’Indonesia e di altri territori musulmani dell’Estremo Oriente. E lo stesso mix culturale ha portato alla creazione del gamelan, la tipica forma orchestrale indonesiana che è un’altra new entry del patrimonio immateriale.
È stata invece transnazionale la petizione in favore della falconeria, una forma di caccia tradizionale ma non per questo giustificata dagli ambientalisti. L’uso di un animale addestrato per catturare prede è una pratica usata da millenni che unisce Paesi diversi come l’Austria e la Corea, il Belgio e il Kirghizistan, l’Irlanda e il Qatar. Anche Italia, Francia e Germania facevano parte del pool di nazioni che hanno chiesto il riconoscimento all’Unesco, insieme ad altri Paesi arabo-islamici come Pakistan e Arabia Saudita, Marocco e Siria. La caccia col falcone, nata probabilmente in Mesopotamia, è sempre stata uno degli sport più amati dall’aristocrazia del mondo arabo ma ha conquistato presto l’Europa, dove sono nati famosi manuali, dal “De arte venandi cum avibus” di Federico II al “Book of Sant Albans” della nobildonna inglese Juliana Berners.
E per chiudere con un carosello come quello dei carabinieri al concorso ippico di piazza di Siena, su richiesta del Marocco è arrivato il riconoscimento Unesco della Tbourida: una carica spettacolare in cui 15 o 25 cavalieri vestiti con abiti tradizionali e attrezzati con fucile, turbante, scimitarra e una copia del Corano galoppano in sincronia fino a fermarsi sparando un colpo di fucile all’unisono. Una specie di fuoco d’artificio umano e animale che chiude feste e festival del Maghreb.