Anwar al-Bunni è un avvocato per i diritti umani. E ha riconosciuto il suo aguzzino in un campo profughi in Germania. Per Raslan è stato deciso l’ergastolo

Questo articolo è stato pubblicato sull’Espresso a ottobre 2021

 

Anwar al-Bunni si trovava in un campo per rifugiati siriani a Berlino, in Germania, quando in un negozietto di alimentari incontra un uomo, suo coetaneo, che crede di conoscere. I due si guardano a lungo, poi ognuno riprende la propria strada. Anwar ripensa per giorni all’incontro, chiedendosi dove abbia mai potuto vedere quell’uomo. Nella sua testa si affollano ricordi e domande, fino a quando un amico gli svela che nello stesso campo si trova anche Anwar Raslan, un ex ufficiale del regime siriano a capo degli interrogatori del branch 251 o al-Khatib, famoso tra gli attivisti e difensori dei diritti umani siriani per i racconti di indicibili torture. «Ecco chi era quell’uomo», si dice Anwar al-Bunni. Quindici anni prima in Siria lo stesso Raslan lo aveva fatto catturare, lo aveva interrogato e incarcerato. La prima domanda che gli aveva rivolto era più una provocazione: «Allora, al-Bunni, cos’è questa storia dei diritti umani in Siria?», gli aveva chiesto con voce sicura, sbeffeggiante. «Non c’è nessun problema di diritti umani. Lo si vede da come sono seduto di fronte a voi, bendato, catturato in strada mentre uscivo di casa». Alla risposta provocatoria, al-Bunni era stato schiaffeggiato. Era il 2006 in Siria e solo nel 2011 Anwar al-Bunni rivedrà la luce del cielo della sua Damasco. Da allora, fino a quel negozietto a Berlino nel gennaio 2015, i due non si erano più incrociati.

 

Oggi, i due Anwar, sono dalle parti opposte della scena. Raslan non viene schiaffeggiato da nessuno, i suoi diritti e la sua dignità di carcerato vengono rispettati come quelli di tutti gli altri prigionieri. Raslan però è accusato di aver commesso crimini contro l’umanità, che per la loro gravità possono essere perseguiti in Stati diversi da dove sono stati compiuti perché toccano l’umanità nella sua interezza, secondo il principio della giurisdizione universale. In Germania, nel processo di Coblenza indetto contro di lui, Raslan rischia l’ergastolo.

 

Noto avvocato per la difesa dei prigionieri politici in Siria negli ultimi trent’anni, Anwar al-Bunni non sta perdendo un attimo neppure in Germania. Ogni giorno, dalla stanzetta del Centro Siriano di Studi e Ricerca legali, insieme a due collaboratori, ascolta le testimonianze di decine e decine di vittime della tortura nelle prigioni siriane. Il trillo della messaggeria di whatsapp non smette di tacere: sono suoi ex clienti o persone che con il passaparola tra siriani hanno avuto il suo numero. Da Parigi a Vienna, da Amsterdam a Oslo, da Istanbul a Copenaghen: ogni giorno, Anwar sente la voce spezzata dal pianto dei rifugiati che hanno deciso di testimoniare al processo di Coblenza e non solo. Un processo che resterà nella storia per aver già condannato per la prima volta uno degli uomini del regime siriano: si tratta di Eyad al-Gharib, un impiegato di grado inferiore, condannato nel febbraio 2021 a quattro anni e mezzo per aver collaborato al compimento di crimini contro l’umanità, arrestando e picchiando i manifestanti alle proteste contro il regime di Assad in Siria nel 2011. Ma Eyad al-Gharib stava sotto Anwar Raslan, e grazie alla sua collaborazione con le autorità tedesche, la sua testimonianza è divenuta centrale nel definire l’accusa di crimini contro l’umanità. Raslan è accusato di aver portato alla morte 57 persone, di averne torturate a decine, e Gharib ha descritto bene di fronte al giudice tedesco la sistematicità della violenza e tortura a danno dei manifestanti pacifici. Raslan, tuttora, nega. Nonostante decine di testimonianze e documenti, anche fotografici, per lui la tortura in Siria non esiste.

 

Anwar al-Bunni sorride, gli occhi diventano piccoli, mentre aspira dalla sigaretta elettronica nel suo ufficio. Il processo di Coblenza lui lo aspettava da tutta la vita. «Non ho mai avuto dubbi che questo momento sarebbe arrivato. Ne sono sempre stato certo. Tutta la mia esistenza è dedicata a questo: alla giustizia in Siria». Dopo l’inizio della rivoluzione siriana nel 2011, il lavoro di Anwar e degli altri difensori dei diritti umani si è intensificato: centinaia di persone arrestate, sparizioni forzate, i primi racconti delle condizioni in carcere e di tortura, le fughe.

Oggi in Germania, il processo di Coblenza è stato possibile grazie all’European center for constitutional and human rights (Ecchr), che ha supportato e messo insieme le testimonianze raccolte da Anwar al-Bunni. Con l’Ecchr lavora Joumana Seif, avvocata siriana che come Anwar, ha dedicato tutta la vita alla difesa dei diritti umani e dei prigionieri politici, come lo è stato suo padre e tanti dei suoi parenti, alcuni rapiti dal regime e scomparsi. Joumana Seif ha raccolto le voci di donne che sono state vittime di violenza sessuale in carcere e ha seguito le testimoni per mesi nel processo, e le ha sostenute psicologicamente anche dopo la testimonianza. Joumana ha gli occhi tristi, non meno speranzosi e fiduciosi di quelli di Anwar, ma molto più provati. «Talvolta mi sveglio la notte di soprassalto. Mi tornano in mente le voci dei testimoni. Ma è questa la strada che dobbiamo percorrere, verso la giustizia». E la giustizia nella testa di Anwar e Joumana non riguarda soltanto gli ufficiali e collaboratori del regime oggi in Europa. «Nelle carte del processo di Coblenza, il nome di Bashar al-Assad, viene fuori cinque volte», dice Anwar al-Bunni, con un volto che si fa improvvisamente serio, severo. «Nella catena, è lui il responsabile ultimo di tutti i crimini contro l’umanità commessi in Siria». L’insieme delle testimonianze rende evidente all’accusa che il processo non è solo contro un singolo uomo, ma contro un intero sistema di potere.

Wassim Mukdad è un musicista e suonatore di oud, anche lui è rifugiato in Germania, dopo aver fatto un lungo viaggio dal sud della Turchia, dove era scappato qualche anno dopo l’inizio della rivoluzione. Tre volte prigioniero in Siria tra il 2011 e il 2013, due volte arrestato dal regime e una volta dal ramo siriano di al-Qaeda, Wassim decide di denunciare pubblicamente le torture che gli ha inflitto Anwar Raslan. «Ero a un barbecue con altri amici siriani, quando ho conosciuto l’avvocata Joumana Seif», racconta nel salotto di casa a Berlino, dove tra album e strumenti musicali si percepisce la serenità di una vita finalmente riconquistata. «Abbiamo chiacchierato, le ho detto che ero stato in prigione e subito lei mi ha chiesto di al-Khatib. Non mi sono dilungato quella volta: mi ha dato appuntamento nel suo ufficio per parlare più a fondo e ho subito accettato».

Come con Wassim, Joumana Seif, che supporta i testimoni ma non può esercitare la sua professione di avvocata in Germania, ha costruito un rapporto di amicizia anche con un’altra testimone, la giornalista siriana Ruwaida Kanaan, che da Parigi si è recata a Coblenza per depositare la sua testimonianza. «Mi hanno ascoltata per 12 ore, con una pausa di solo un’ora a pranzo», dice. «Hanno voluto sapere tutti i dettagli dei tre giorni passati ad al-Khatib: talmente mi sono immedesimata che per un attimo mi sono sentita fisicamente, di nuovo, in quella cella». Ma adesso Ruwaida non ha più paura. Ha rivisto Anwar Raslan in aula, ha sperato che guardasse il suo volto fiero, ad un processo che oltre a fare la Storia, sta toccando le vite di centinaia di siriani.

«Quando è caduto il regime nazista, dopo la fine della seconda guerra mondiale, hanno iniziato a processare i criminali. A livello internazionale si può dire la stessa cosa per il Rwanda, il Kosovo, l’ex-Jugoslavia, e sono tutti processi intentati per volontà di uno Stato o un gruppo di Stati, a livello internazionale», ricorda alcuni precedenti storici Anwar al-Bunni. «A Coblenza, per la prima volta in assoluto nella Storia, viene processato un regime in vita e che governa con forza, bombardando ancora la popolazione civile, a braccetto coi suoi alleati. L’imputato Anwar Raslan fa parte del regime ed è responsabile dei crimini. Ma questa volta non c’è dietro la volontà di uno Stato. È un processo iniziato per volontà delle vittime dei crimini contro l’umanità: anche questo accade per la prima volta nella Storia».

 

Per Anwar al-Bunni e Joumana Seif, il processo di Coblenza ha un significato più grande che per il popolo siriano e il futuro della Siria. Costituisce un precedente per tutte le vittime di dittature nel mondo che avvalendosi del principio della giurisdizione universale possono fare causa depositando le testimonianze di fronte al procuratore generale, senza dover aspettare le risoluzioni dell’Onu, piangere il veto di Cina e Russia, o sperare nella Corte penale internazionale.

Anwar al-Bunni conosce poco Berlino, non ne ha visitato i musei. Si reca però spesso alle manifestazioni alla Porta di Brandeburgo per non dimenticare i dispersi siriani nelle carceri di Assad o le persone rapite, tra cui i suoi cari amici avvocati Khalil Matouk e Razan Zaitouneh. «Sono solo di passaggio in Germania. Lavoro dal mio ufficio come se fossi in Siria. Ho la fiducia che torneremo a casa. Il processo di Coblenza è solo l’inizio», conclude Anwar al-Bunni, ritornando a ridere con gli occhi. Joumana Seif al contrario passeggia in una rara mattina di sole berlinese, costeggiando il Muro di Berlino con Wassim Mukdad e interrogandosi sulla storia della città. «Un giorno cadrà anche il nostro muro», si dicono. Il muro del regime che divide da casa i siriani di Germania, dove intanto lavorano per il futuro del loro Paese. E di tutta l’umanità.