Al termine di una legislatura pazza e sconclusionata il sistema politico si trova al momento più delicato. Eleggere il capo dello Stato. E decidere il futuro del presidente del Consiglio

Ventunomila coraggiosi hanno sfidato domenica scorsa una bella giornata di sole invernale per votare alle elezioni suppletive il deputato che rappresenterà alla Camera i cittadini del collegio Roma uno, lasciato libero da Roberto Gualtieri che lo aveva ereditato da Paolo Gentiloni. È stata eletta Cecilia D’Elia del Pd, con quasi il 60 per cento dei voti espressi. Ventunomila elettori fanno l’11,33 per cento degli aventi diritto, laddove per il sindaco quattro mesi fa ha votato appena il 40 per cento. Nella città in cui le disuguaglianze sono aumentate negli ultimi anni: economiche, sociali, generazionali, di genere. Le spinte all’innovazione e le arretratezze impossibili, la coesione sociale e le spinte alla disgregazione: Roma, la città capitale, è la sintesi nazionale del tempo di pandemia.

 

La politica, il voto, non è più la leva privilegiata del cambiamento. Dopo due anni di stato di emergenza arriviamo così alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica. Tra due spinte contrapposte, presenti nella società italiana. La richiesta di scelte, decisioni, capacità di comando, verticalizzazione del potere, la domanda di leadership forti, rivelata dagli studi sulla voglia di presidenzialismo (il 74 per cento vorrebbe l’elezione diretta del presidente della Repubblica, ha scritto Ilvo Diamanti) che convive con il dimezzamento della partecipazione politica e sociale, un fenomeno di lungo periodo amplificato dalle chiusure della pandemia. Il fronte del no al vaccino e al green pass respinge l’idea della salute come bene pubblico, interesse della collettività, come lo definisce la Costituzione all’articolo 32. Il rifiuto del vaccino è un no individualista, anti-solidarista. I crociati no vax, difensori della loro limpieza de sangre, invadono i talk televisivi e lamentano di sentirsi vittime di leggi liberticide, ma non si sono mai interessati di quelle fratture sociali nel Paese che ostacolano la parità di opportunità dei cittadini, che limitano la piena espressione di libertà di ciascuno di realizzare i propri progetti di vita.

 

Ma la dialettica di un Paese tutta schiacciata su una sola questione è insopportabile, tiene nascoste le altre emergenze quotidiane, a partire dalla stessa organizzazione sanitaria. Antonio Fraschilla nella sua inchiesta questa settimana sull’Espresso dimostra come in due anni di emergenza covid sia stato fatto poco o nulla per ampliare il numero delle terapie intensive. Elena Testi prosegue il suo racconto sull’Espresso sulle ferite invisibili, i bambini e gli adolescenti: la legge sugli hospice pediatrici è largamente disattesa, i piccoli in sofferenza con le loro famiglie sono lasciati soli ad affrontare l’ultimo passaggio. Alberto Zanobini, direttore generale del Meyer di Firenze e presidente dell’associazione degli ospedali pediatrici italiani, si rivolge direttamente al Pnrr, come se fosse una persona: «Caro Pnrr, vorrei che Tu prevedessi per i prossimi anni investimenti per la salute dei bambini e dei ragazzi...». Nessuno di questi temi è nell’agenda politica del Paese, né nelle sue avvilenti dispute mediatiche. Per questo riprendiamo l’appello del professor Zanobini e lo rilanciamo, accanto alla denuncia di Gloria Riva e di Marco Rossi Doria sull’abbandono scolastico.

 

Il signor Pnrr in realtà c’è, si chiama Mario Draghi, è a lui e al suo governo che tocca da quasi un anno la gestione dell’emergenza sanitaria e l’indicazione degli obiettivi di spesa dei fondi europei. Il governo Draghi sta vivendo gli ultimi giorni di vita, almeno per come lo abbiamo conosciuto finora. Quando Sergio Mattarella affidò all’ex presidente della Bce l’incarico di presidente del Consiglio, un anno fa, era chiaro che l’orizzonte temporale era l’elezione del presidente della Repubblica del gennaio 2022. E ora siamo alla vigilia del voto. I partiti, le forze politiche, sono arrivati all’appuntamento nel modo più confuso possibile, senza una direzione di marcia, una strategia, una proposta per il Paese.

 

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Il toto presidente è una tombola, una riffa complicata dalla povertà delle leadership e dalla mediocrità di alcune personalità in campo, inquinata per settimane dalla ricomparsa sulla scena di Silvio Berlusconi e dai suoi inimitabili amici: Denis Verdini, Marcello Dell’Utri, Valter Lavitola. I loro consigli pubblici sono la peggiore disgrazia per il Cavaliere che sogna di tramutarsi in statista: sono un avvertimento - Silvio, ricordati degli amici - l’indizio di un ricatto politico. L’auto-candidatura alimentata dai retroscenisti, dal colore sulle telefonate di Vittorio Sgarbi e sui quadri, ha tenuto bloccato per settimane tutto il centro-destra e l’intero arco parlamentare.

 

Ora è arrivato il momento della scelta che segna in ogni caso la fine dell’attuale formula su cui si regge il governo Draghi e l’inizio di una fase nuova. Un anno fa il governo Draghi fu un’imposizione subita dai partiti. Era arrivato l’oggetto misterioso, l’uomo di Banca d’Italia e della Bce, benedetto dai poteri forti, se ancora esistono, ma c’è da dubitarne. Il nuovo premier si aggirava prudente nei palazzi del Parlamento, che aveva frequentato in anni lontani nelle audizioni, e nelle stanze ministeriali, che gli erano più familiari per averle abitate negli anni lontani della direzione generale del ministero del Tesoro. I leader di partito lo studiavano, con apprensione e soggezione.

 

La prima conseguenza fu il cambio di guida nelle forze che avevano sostenuto il precedente governo: Enrico Letta al posto di Nicola Zingaretti nel Pd, Giuseppe Conte al vertice del Movimento 5 Stelle dopo un sordo scontro con Beppe Grillo (oggi nei guai giudiziari per traffico di influenze) e uno ancora più sotterraneo con Luigi Di Maio, ancora in pieno svolgimento.

 

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Il governo Draghi è stato una scelta di Sergio Mattarella: il gesto di un politico che con la sua decisione cambia il corso delle cose. Doveva consentire ai partiti di riprendere il loro ruolo nella società, verso le prossime elezioni politiche, e di approvare una nuova legge elettorale, le regole del gioco. Alcuni hanno provato a farlo: il Pd di Letta sta provando a ricostruire un’ossatura organizzativa, con le strutture regionali e provinciali, e un’elaborazione culturale, con le Agorà tematiche volute dal segretario, aperte ai mondi esterni al partito, ancora vaghe nel loro punto di arrivo. Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni è in cerca di una classe dirigente diffusa, dopo il disastro della candidatura di Enrico Michetti a sindaco di Roma. La Lega di Matteo Salvini è divisa tra la versione declamatoria e parolaia del suo leader che sta a Roma e il pragmatismo dei presidenti del Nord, il veneto Luca Zaia e il giovane Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia, con un brillante presente e un ancor più luminoso avvenire. Gli altri partiti sono al big bang: il Movimento 5 Stelle è la vittima designata di queste elezioni presidenziali, diviso tra l’irrilevanza e il rischio dello sciogliete le righe nell’aula di Montecitorio che porterebbe al collasso la leadership di Conte. Forza Italia è il comitato elettorale del suo Capo. Italia Viva di Matteo Renzi si muove negli spazi interstiziali, marginali. I centristi, ovunque allocati, interpretano un lavoro su chiamata della politica, attendono di essere raccolti da qualcuno con la relativa mercede.

 

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Il sistema politico stremato, estenuato, quasi al termine della legislatura più pazza della storia repubblicana, la più sconclusionata, arriva così al momento più alto della vita costituzionale, l’elezione del nuovo capo dello Stato. I partiti sono chiamati a scegliere Draghi. Draghi presidente della Repubblica o Draghi presidente del Consiglio: perché un anno fa il governo Draghi fu una non-scelta, una necessità dettata dagli eventi, subita per evitare il fallimento o pericolose elezioni anticipate. Mentre oggi anche la riconferma dell’ex banchiere centrale a Palazzo Chigi, con un altro nome al Quirinale, sarebbe una scelta. E le condizioni della scelta sono tutte da scrivere.

 

Draghi, arrivato in politica da alieno e da commissario esterno, oggi è non solo il premier dell’Italia, ma anche il vero leader dell’Europa. E chi vuole indebolire la politica o l’Europa deve passare dall’indebolimento di Draghi. I nemici della politica vanno cercati nei paesi dell’autoritarismo, nemici dell’Europa perché, come diceva David Sassoli, «le libertà mettono paura, consentono uguaglianza, giustizia, trasparenza, opportunità, pace. E se sono possibili in Europa, sono possibili ovunque». I nemici della politica sono nei centri economici e finanziari che vogliono agire indisturbati, senza rispettare le compatibilità sociali e ambientali e soprattutto umane della massimizzazione dei profitti. I nemici della politica sono i profeti di sventura che hanno seminato la sfiducia, hanno reso la politica debole, povera, ricattabile, evanescente. Hanno scommesso in tanti sulla mancanza di politica, l’assenza di politica, il nulla della politica, che diventa il deserto della partecipazione.

 

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In questa squadra della politica italiana e europea, scarsa di campioni e appesantita di brocchi, ha accettato di giocare un anno fa una figura che veniva da un altro mondo, che conosce ogni angolo del capitalismo economico-finanziario mondiale, che per quasi dodici mesi si è addestrato alle virtù del governante: capacità di ascolto, inclusione, empatia, rappresentanza del Paese nelle sue pieghe più nascoste e dolorose. L’ha fatto con molte contraddizioni e criticità, assistito dalla saggezza politica di Sergio Mattarella. Oggi Draghi è chiamato a incarnare l’uomo di Stato, con la politica, non senza o contro la politica. I prossimi giorni diranno se la metamorfosi è compiuta. Altrimenti sarà un drammatico fallimento. Comunque vada.