La carriera alla Farnesina con i ministri di ogni colore, i rapporti internazionali, le questioni Maro’, Regeni, Zaki. Il passaggio al Dis. Il ritratto della donna dello Stato su cui si sono spaccati i partiti nella notte

I risultati. La prima dote di Elisabetta Belloni sono i risultati. I politici non si affidano, consegnano, rimettono ai funzionari di Stato se non ne traggono benefici. I politici di diversi colori e di svariate epoche negli ultimi vent’anni hanno promosso o confermato l’ambasciatrice Belloni al ministero degli Esteri perché era un vantaggio per loro, per le loro carriere, a volte per il loro decoro. E di conseguenza per lo Stato.

 

Non c’è nient’altro di soffuso e di sottaciuto attorno alla candidatura al Quirinale di Belloni, romana come l’amico Mario Draghi, stesso mese di nascita, settembre, stesso istituto liceale, il Massimo dei gesuiti, stesso segno zodiacale, la Vergine, ma 11 anni più giovane. Entrò alla Farnesina col concorso del 1985. Una brillante covata. Superò la prova con Ettore Sequi, attuale segretario generale e dunque suo successore; Maurizio Massari, rappresentante permanente alle Nazioni Unite; gli ambasciatori Raffaele Trombetta (Londra), Giorgio Starace (Mosca), Gianluigi Benedetti (Tokyo).

 

Quirinale: fonti, sponda Renzi-Letta sul no a Frattini

Nel 2004 il ministro Franco Frattini, centrodestra, assegnò a Belloni la gestione dell’Unità di Crisi. Era un periodo di rovente tensione nella struttura che si occupa di emergenze: la doppia guerra afghana e irachena, il terrorismo più insidioso, le decine di sequestri di italiani. I riscatti. Ci sono due modi di essere diplomatici: non fare con diplomazia, fare con diplomazia. Il secondo prevede che ogni membro di un gruppo abbia un compito e non soltanto un incarico, un valore meramente gerarchico, una scrivania posizionata a una certa altezza.

 

Questo atteggiamento inusuale per un ministero ipertrofico, caricandosi di responsabilità e dopo di eventuali successi o insuccessi, fu introdotto da Belloni all’Unità di Crisi con il già citato ministro Frattini e anche col ministro Massimo D’Alema. E poi alla Cooperazione internazionale con il ministro Gianfranco Fini, centrodestra e, infine, con il ministro (e collega ambasciatore) Giulio Terzi di Sant’Agata, tecnico del governo di Mario Monti.

 

Quando arrivò la ministra Emma Bonino, governo multipartito di Enrico Letta, Belloni era alla direzione generale per le risorse, e cioè personale e bilancio, esperienza da artificiere in un ministero. Fu Bonino a elevarla al rango di ambasciatrice dopo trent’anni di anzianità. Invece il ministro Paolo Gentiloni, centrosinistra, la nominò capo di gabinetto e, alla pensione di Michele Valensise, segretario generale. Con Gentiloni al governo e Belloni al ministero a sopperire alle sue carenze, pure il ministro Angelino Alfano non sfigurò agli Esteri. Anzi si divertì assai a girare il mondo. La fase più critica è toccata a Enzo Moavero Milanesi, ministro troppo soffice e troppo avulso che si ritrovò inerte fra le spinte sovraniste di Matteo Salvini e le spinte populiste dei Cinque Stelle nel governo di Giuseppe Conte versione gialloverde.

 

Elezione del nuovo Capo dello Stato, conferenza stampa di Salvini

Per farne un’epitome di quei mesi fra l’estate del 2018 e l’estate del 2019: la Francia ritirò l’ambasciatore a Parigi per reagire alla campagna di propaganda dei politici italiani, le navi con i migranti erano lasciate in mare (anche con i bambini e d’inverno) dal ministro Salvini, l’Unione europea era quasi disconosciuta, i cinesi blandivano i grillini, i russi carezzavano i leghisti, gli americani diffidavano di Roma. C’erano Belloni al ministero degli Esteri e il Quirinale di Sergio Mattarella, e poi altri apparati di Stato che non si piegano alle bieche esigenze dei partiti, a raddrizzare l’Italia in politica estera. Fu la Farnesina a convincere gli alleati europei a prendersi una quota di migranti. A rimediare agli errori. O meglio agli orrori. Fu la Farnesina a rabbonire l’Europa, a spiegare agli americani, a calmare i francesi e comunque a contenere i russi. Con una telefonata. Una visita riservata. Una cena conviviale. Un supporto in un territorio terzo. Così fu ricostruito il legame con la Francia di Emmanuel Macron che ha portato al recente Trattato. Qualcosa di impensabile, più che assurdo, non più di tre anni fa. Nonostante i repentini cambi di visione, di strategie e di linguaggio dei partiti di questa legislatura che ha coinciso con i frequenti cambi di governo, il ministero degli Esteri ha proseguito le sue attività sfruttando la sua fitta rete e il suo essere Stato a prescindere dagli eventi. Come è doveroso per ogni amministrazione.

 

Belloni ha investito molto tempo nelle relazioni con gli omologhi segretari generali. Questo ha aiutato parecchio con la Francia, la Spagna, la Turchia e anche l’India. Se la controversia con gli indiani per i due Marò – accusati di omicidio – si è conclusa pacificamente con un arbitrato internazionale, una sentenza della Corte Suprema, un modesto risarcimento danni per l’Italia e soprattutto senza ulteriori guai per i due militari è merito di Belloni e dei suoi rapporti con il governo di Nuova Delhi e in particolare con Subrahmanyam Jaishankar, ministro degli Esteri, non casualmente ex segretario generale. Luigi Di Maio deve alla Farnesina la sua rivincita politica a 36 anni. Allo Sviluppo Economico, a cui sommò imprudentemente il ministero del Lavoro, fu maciullato col governo Conte I. Invece agli Esteri Di Maio ha imparato il mestiere, allevato giorno su giorno e riunione su riunione da Sequi, da Belloni e da Sebastiano Cardi. Luigi ha capito che dire poco equivale a dire meglio e dire meglio fa crescere rispetto.

 

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«Non desisteremo. Il nostro lavoro si svolge nel silenzio, ma vi assicuro che non abbiamo smesso di porre la questione e la priorità anche nelle interlocuzioni con l’Egitto», disse Belloni in una delicata audizione alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del ricercatore di Giulio Regeni che inevitabilmente ha incrociato l’ingiusta carcerazione dello studente egiziano Patrick Zaki.

 

La Farnesina ha sempre sostenuto la pratica del dialogo, d’altronde trattare, smussare, procedere lentamente è la sua indole. Niente ritorsioni. Niente simbolismi. Niente prove di forza che non attecchiscono su chi pratica abitualmente la forza. Allora lo Stato ha preteso il processo (ancora da difendere) per gli assassini di Regeni e ha ottenuto la liberazione di Zaki che chissà un giorno potrebbe rincasare a Bologna e riannodare la sua vita. Ci vogliono fermezza e valide ragioni. Dopo l’arresto del capitano di fregata Walter Biot, beccato a passare informazioni riservate agli agenti di Vladimir Putin, fu Belloni a convocare alla Farnesina l’ambasciatore Sergej Razov per comunicargli l’espulsione di due russi limitando altre ripercussioni. Un mese dopo, com’è scontato in simili contesti, Mosca ha rispedito a Roma un italiano. Uno.

 

La Libia con i suoi molteplici risvolti, l’Egitto come detentore (in parte o in tutto) della verità su Regeni, la Russia dello zar Vladimir, la Cina che si espande e altri temi già affrontati alla Farnesina, lo scorso maggio, Belloni li ha ritrovati al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) che coordina le due agenzie operative dei servizi segreti. Draghi ha scelto una diplomatica per resettare il Dis dopo la contestata stagione del generale Gennaro Vecchione, molto vicino a Conte, mai in sintonia con i direttori delle agenzie di intelligence e con addosso un mistero ferragostano.

 

Quando tra la fine del governo Conte I e il varo del governo Conte II accolse a Roma il ministro americano William Barr a caccia di indizi per riscrivere il Russiagate e salvare la presidenza di Donald Trump. Ci fu un seguito a settembre, era il 2019, e fu altrettanto anomalo per i costumi degli 007. Il sottosegretario con delega all’intelligence Franco Gabrielli e la direttrice Belloni hanno applicato direttive e normative molto severe. Per esempio, sono vietati i contatti non autorizzati con i politici e sono vietate le nomine e le retribuzioni da governi stranieri fino a tre anni dal congedo. Con il mandato di Gabrielli e Belloni si è chiusa la carriera al Dis di Marco Mancini, l’ex carabiniere coinvolto nei casi Abu Omar e spionaggio Telecom che si incontrò in un Autogrill con Matteo Renzi.

 

Elisabetta Belloni si è laureata con lode in Scienze Politiche alla Luiss, si è sposata con l’ambasciatore Giorgio Giacomelli scomparso nel 2017, nel fine settimana se ne va in campagna tra orti, cani e scarpinate, non organizza né partecipa ai salotti della capitale, è donna ed è una donna che ha registrato primati di potere in posti dominati dai maschi se non dal maschilismo. Tutto vero. Se adesso è candidata al Quirinale non lo è per ciò che rappresenta, ma per ciò che ha fatto. E per come l’ha fatto.