Umberto Eco ci manca. Davvero tanto. Ne abbiamo sofferto ancora di più l’assenza in questa triste stagione di pandemia, di incompetenza ostentata, di caos comunicativo, di complotti evocati e di verità rifiutate, di «rumore che più fa rumore, meno si fa caso a quello che dice». Un clima diffuso di assuefazione all’irrazionale che lo avrebbe spinto a continuare nella sua missione civile di intellettuale: demistificare, demistificare, demistificare.
Ce ne siamo convinti ancora di più sfogliando “Sulle spalle di un gigante”, i cinque volumi che, da domenica 9 gennaio, i lettori troveranno in edicola con “Repubblica” o “L’Espresso” (a 9,90 euro in più). Si tratta della raccolta di alcuni degli interventi che Eco è andato pubblicando in oltre cinquant’anni e qui divisi in cinque antologie tematiche: la comunicazione; il vero e il falso; i costumi degli italiani; il ruolo degli intellettuali; reazionari e moderati: «Pagine sparse sulle piccole cose del mondo» dalle quali, scrive Mario Andreose nella presentazione dell’opera, «viene fuori un gigante: di acume, analiticità, attenzione e ironia. Attualissimo e fuori dal tempo, come tutti i giganti». Sulle cui spalle ci accomodiamo per ripensare la realtà con i suoi occhi.
GLI ARTICOLI DI UMBERTO ECO SULL’ESPRESSO
Già da molti anni Eco aveva individuato i fenomeni nuovi che avanzavano, previsto quanto avrebbero inciso sul costume, intuito le loro derive. Si rilegga per esempio ciò che scriveva dei fanatici del complotto, le cui rumorose truppe hanno ripreso a marciare in tempi di Covid-19: «I complottisti non cercano il vero; non sono cioè interessati a capire come i mali si producono; cercano una spiegazione contro, che li liberi dal Male e li elevi a Migliori (perché più intelligenti dei poveri in spirito che non capiscono i complotti)»: il 1975 o il 2021? Quando poi dilagherà Internet, metterà in guardia: «Accanto a siti attendibilissimi fatti da persone competenti, esistono in linea siti del tutto fasulli, elaborati da pasticcioni, squilibrati o addirittura da criminal-nazisti, e non tutti gli utenti del Web sono capaci di stabilire se a un sito bisogna dare fiducia o meno». Le cose sarebbero andate perfino peggio che in quel lontano 2006...
Naturalmente nei cinque volumi brilla ogni tanto una “Bustina di Minerva”, formidabile rubrica che Eco ha tenuto su queste pagine dal 1985 al 2016: bastava un’intuizione da appuntare sul risvolto della bustina dei fiammiferi per farne una pagina deliziosa. Data la tribuna, Umberto si interrogava spesso sul vero e il falso, su quanto i giornalisti soffrano questa dicotomia, e come il loro linguaggio contribuisca a creare ambiguità (a un certo punto cominciò a mandare la “Bustina” con il titolo già fatto...). Indimenticabile è “La smentita della smentita”, immaginario scambio di lettere tra Preciso Smentuccia, la vittima, e Aleteo Verità, il giornalista spregiudicato. Lamenta lo Smentuccia: «Nel corso della nostra breve intervista telefonica… non ho mai detto che sto ingaggiando degli assassini per eliminare Giulio Cesare, bensì sto incoraggiando l’assessore Filippi a eliminare il traffico in piazza Giulio Cesare…». C’era già tutto il dibattito degli anni a venire.
Già tempo prima si era divertito a rimproverare il linguaggio dello stesso giornale che lo ospitava: «Se arriverete a leggere questo articolo, capirete perché si continua a scrivere su questo giornale. Perché si può dire che è irritante. E si può perché L’Espresso è così irritante da accettare l’autoflagellazione pur di convincere il proprio lettore che non è irritante. Per questo è irritante». Insomma i giornali gli piacevano, sì, ma ne coglieva vezzi, vizi e limiti. E lo ripeteva. Finché un giorno il direttore di allora, Livio Zanetti, lo sfidò a scrivere sull’Espresso che cosa dell’Espresso non gli piacesse. Lo fece. E Zanetti titolò: “L’Espressese è una lingua biforcuta”. Ma nonostante questo, o forse in virtù di questo, sempre sincera.