Sarà una Festa, anzi un Festival, “plurale e diffuso”, parola del neopresidente Gianluca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna che da anni organizza nella sua città con clamoroso successo “Il Cinema Ritrovato”, calato a Roma per dare slancio al nuovo corso con la neodirettrice Paola Malanga. Archiviato con particolare malagrazia l’ultimo direttore, Antonio Monda, tornano i film in Concorso, come da più parti si reclamava da tempo, e stavolta sarà un concorso certificato dalla Fiapf (Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films), perché «Roma non è Venezia, né Cannes, né Berlino», ma merita di piantare la sua bandierina sulla mappa internazionale dei Festival (che poi riesca a trovare davvero, e finalmente, un suo ruolo è la sfida di quest’anno). Anche se i titoli in gara sotto l’insegna di “Progressive Cinema - Visioni per il mondo di domani” saranno 16 in tutto, tra cui sei sono opere prime e sette sono firmati da donne («ce ne siamo resi conto solo dopo», giura la direttrice), due segnali positivi.
Infine, saranno 11 giorni (13-23 ottobre) carichi di memoria, cinematografica e non, perché Roma è una delle capitali mondiali della Settima arte e questa è la fiche principale gettata nel piatto di un rilancio che vuole agire su due piani paralleli ma comunicanti.
Da un lato infatti bisogna rilanciare con tutti i mezzi la visione su grande schermo, contrastando quella tendenza alla desertificazione delle sale che è particolarmente devastante in Italia ed è il segno più vistoso di una caduta, simbolica e reale, del desiderio di cinema nel nostro Paese (cinema vero, non imbastardito da esigenze televisive e promozioni più o meno sfacciate “del territorio”, cioè turistiche). Dall’altro occorre sostenere il profilo culturale non proprio esaltante di una città che ha molto da offrire anche in termini di produzione, basti pensare a Cinecittà. Soprattutto adesso che il boom delle piattaforme ha moltiplicato in modo esponenziale i titoli prodotti in ogni ambito e genere (film, serie, documentari...). Costringendo tutto l’audiovisivo a uno sforzo di riorganizzazione essenziale per cavalcare un’onda senza precedenti.
Ed ecco la manovra a tenaglia di Farinelli e Malanga. Se in gara si vedranno gli autori di domani, non manca una sezione intitolata “Grand Public” destinata ai titoli di più sicuro richiamo. L’operazione è ad alto rischio: i film capaci di coniugare davvero qualità e intrattenimento sono sempre più rari di questi tempi. Tra quelli scelti dalla Festa, dopo “Il colibrì” di Francesca Archibugi, dal romanzo di Sandro Veronesi, destinato alla serata di apertura, “Grand Public” proporrà grandi nomi come l’inglese Stephen Frears con “The Lost King”, eccentrico giallo archeologico sulle tracce dei resti di re Riccardo III. Il turco-tedesco Fatih Akin firma “Rheingold”, niente Nibelunghi ma curdi, rapine e avventure in un indiavolato on the road che riscrive Wagner a ritmo di rap. Mentre David O. Russell, autore del geniale “Il lato positivo”, dirige “Amsterdam”, altro giallo storico in cui nulla è mai come appare, forte di un supercast - Christian Bale, Margot Robbie, John David Washington, Chris Rock, Michael Shannon, Zoe Saldana, Robert De Niro - destinato speriamo a mettere in ombra le recensioni finora non esaltanti.
Ambiziosi, assai diversi e non sempre robustissimi anche gli italiani di “Grand Public”. Gianni Di Gregorio riscopre l’amore e i piccoli borghi in “Astolfo”. Roberto Andò (“La stranezza”) ripercorre la genesi di “Sei personaggi in cerca d’autore” unendo Pirandello a due becchini (Toni Servillo e Ficarra e Picone). Michele Placido insegue “L’ombra di Caravaggio” con un cast internazionale. Gianni Zanasi propone una commedia surreale ma non troppo mettendo l’Italia in guerra con la Spagna (“War - La guerra desiderata”). Renato De Maria manda un gruppo di malavitosi milanesi a rubare l’oro di Mussolini (“Rapiniamo il Duce”, la riscrittura del Novecento è un tema ricorrente quest’anno). Mentre Edoardo Falcone adatta il “Canto di Natale” di Dickens alla fisionomia e alla filosofia quirite di Marco Giallini (“Il principe di Roma”). E Alessandro Aronadio lavora addirittura sui paradossi temporali in “Era ora”.
C’è poi una fastosa retrospettiva dedicata a Paul Newman e Joanne Woodward, con 15 titoli tutti da rivedere o da scoprire per la prima volta al cinema, da “Butch Cassidy” a “Lo spaccone”, da “Missili in giardino” a “La donna dai tre volti”. Passando per quel “Mr. & Mrs. Bridge” che ci porta all’altro omaggio di quest’anno: James Ivory, il grande regista americano di film letterari come “Camera con vista”, “Maurice”, “Quel che resta del giorno”, tutti in programma a Roma insieme a un nuovo documentario nato dal ritrovamento di vecchie bobine girate in Afghanistan nel 1960, “A Cooler Climate”, in cui Ivory, classe 1928, torna agli inizi della sua carriera, all’incontro artistico e personale con Ismail Merchant. E a una Kabul terribilmente diversa da quella di oggi.
Anche se com’è naturale omaggi e retrospettive sono la parte più facile. Le sfide vere sono il Concorso e le tante sezioni parallele. In gara gli unici nomi noti sono Jennifer Lawrence, protagonista e produttrice di “Causeway”, debutto di Lila Neugebauer sui reduci di guerra. Gabriel Garcia, figlio di Garcia Marquez, già autore di “Le cose che so di lei”, di ritorno con “Raimond & Ray”, due fratellastri (Ethan Hawke e Ewan McGregor) ai funerali del padre. L’algerina Mounia Meddour, la regista di “Papicha”, con la ballerina mutilata “Houria”. Il Francesco Patierno di “La cura”, ovvero “La peste” di Camus girata a Napoli durante la pandemia con il meglio del teatro partenopeo sul set. E la coppia Margaret Qualley/Christopher Abbott di “Sanctuary”, lei dominatrix, lui cliente ricco e pronto a ogni umiliazione, o forse no.
Tutti film che hanno bisogno del concorso e magari di un premio per imporsi (molto interessanti sulla carta anche il palestinese “Alam” cioè “Bandiera” di Firas Khoury, e il franco-ucraino “Shttl”, scritto proprio così in omaggio a Georges Perec, esordio dell’argentino Ady Walter che ha ricostruito a 60 chilometri da Kiev un perfetto shtetl anni Quaranta donandolo poi all’Ucraina per farne un museo prima che finisse distrutto dalla guerra). Ma Roma, come Londra o Berlino, vuole il pubblico, dunque gioca su tutti i tavoli. Ed ecco “Best Of 2022”, 11 anteprime dai festival internazionali con titoli come “Triangle of Sadness” di Ruben Ostlund, palma d’oro a Cannes; “Mamma contro G.W Bush” dell’imprevedibile tedesco Andreas Dresen, due premi alla Berlinale; “Cut! Zombi contro zombi”, remake di un cult giapponese firmato da Michel Hazanavicius. Ma anche “Klondike” dell’ucraina Maryna Er Gorbach, scoperto al Sundance prima della guerra e ambientato nel Donbass del 2014, dove una coppia si divide per il diverso atteggiamento con cui si confrontano agli invasori russi.
Mentre le proposte più varie e talvolta nuove stanno in Freestyle, 25 titoli fra i quali si trova letteralmente di tutto. “Jane Campion, la femme-cinéma”, documentario di Julie Bertuccelli sulla grande regista neozelandese, e due puntate (su dieci) della serie “Django” diretta da Francesca Comencini, con Matthias Schoenaerts nei panni del pistolero creato da Sergio Corbucci. Tre episodi della serie su Lillo diretta da Eros Puglielli, e tre puntate di quella che il grande artista sudafricano William Kentridge ha dedicato al proprio lavoro, “Self-Portrait as a Coffee Pot”. Un esordio vagamente beckettiano scritto dai fratelli D’Innocenzo e girato sul Tevere, “Bassifondi” del videomaker Trash Secco. Una commedia noir e surreale, “La California” di Cinzia Bomoll, scritta dalla regista con la mai troppo rimpianta Piera Degli Esposti, di cui sentiremo anche la voce.
Perché non siano in Freestyle ma tra le Proiezioni speciali anche “Les Années Super 8” di Annie Ernaux e David Ernaux-Briot, e “Polanski, Horowitz. Hometown”, con il grande regista e il grande fotografo in dialogo in una Cracovia “che sembra Disneyland”, resta un mistero. In compenso tra i titoli di Freestyle troneggia l’evento cinèfilo della Festa: “The Last Movie Stars” di Ethan Hawke, una full immersion dell’attore americano tra le carte e le immagini di Paul Newman e Joanne Woodward, sei episodi per 441 minuti ricchi di scoperte, testimonianze e sequenze dai loro lavori più celebri. Una di quelle cose che si possono fare solo negli Usa dove vige il “fair use”, ovvero il diritto di antologizzare brani di film di grande valore commerciale per ragioni culturali, contrariamente a quanto accade in Italia dove operazioni simili sono possibili solo a patto di acrobatici sotterfugi o esose trattative con i proprietari dei film. Sarebbe bello se i tanti documentari in programma a Roma riportassero a galla anche questo tema. Ma non facciamoci illusioni.