Marziani, per primi, sono stati loro: quando, oltre vent’anni fa, piombarono sul pianeta editoria decisi a scompigliarlo un po’. Senza neppure un nome, o cinque in una sigla sola – Wu Ming – colonizzarono di visioni e di ideali, a partire da quel tributo ai dissidenti cinesi evocato dall’ideogramma, scaffali sempre più ampi: con libri come “Q” e “Altai” firmati col nome multiplo di Luther Blissett, romanzi come “Manituana” e “L’armata dei sonnambuli”, tanti racconti e storie da solisti. Intanto, il collettivo cresceva, diventava una costellazione di progetti, riuniti dalla Wu Ming Foundation. Ora che la formazione originaria è approdata al numero ideale, tre - Wu Ming 1-Roberto Bui, Wu Ming 2-Giovanni Cattabriga e Wu Ming 4-Federico Guglielmi – navicelle spaziali e forme di vita intergalattiche diventano autentiche protagoniste del loro ultimo romanzo. Insieme a un anno, il 1978, che è stato record di avvistamenti alieni sul territorio italiano.
“Ufo 78”, in uscita l’11 ottobre per Einaudi, ripercorre quella complessa stagione. Tra musica e politica, repressione e lotta armata, memorabile per il Paese. E per l’ufologia.
Il 1978 fu davvero un anno d’oro per i cacciatori di misteri, in cielo e in terra. Duemila avvistamenti di dischi volanti nei cieli del Belpaese. Mentre Eugenio Finardi cantava: “Extraterrestre portami via, voglio una stella che sia tutta mia. Extraterrestre vienimi a cercare, voglio un pianeta su cui ricominciare”. Che ricordi personali avete?
«Eravamo piuttosto piccoli, ma come tutti i bambini di quegli anni fortemente suggestionati dall’idea di queste creature misteriose. Gli ufo erano davvero ovunque: nei titoli dei giornali, che riportavano notizie di avvistamenti. Allo Zecchino d’oro c’era una canzone intitolata “Uffa gli Ufo”. Persino Franco Franchi ne incise una, “Mamma! Ho visto un Ufo”. Nelle case giravano libri di Peter Kolosimo come “Astronavi sulla preistoria”. Erano anche gli anni di Atlas Ufo Robot e di Mazinga, di un immaginario che è arrivato fino agli anni Ottanta ma che a partire da quel momento ha cambiato la storia dei cartoni animati e ha permeato la fantasia di un’intera generazione. Il 1978 è anche l’anno in cui arriva al cinema in Italia “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, inaugurando un interesse sugli alieni buoni che culminerà con “E.T”.
Anche nel tempo della pandemia c’è stato un picco di flap, cioè di avvistamenti di ufo. Come si spiegano concentrazioni simili in certi periodi?
«Le luci in cielo ci dicono qualcosa di noi e della situazione in cui ci troviamo. Durante il lockdown del 2020 eravamo chiusi in casa. Guardare il cielo è sempre un atto di liberazione, un gesto per ampliare gli orizzonti o prendersi una pausa dal tran tran quotidiano: lo associamo all’idea di uscire da uno stato di costrizione, se non proprio di oppressione. Guardare il cielo è un gesto di libertà. Non c’è da sorprendersi che dal 2020 in avanti gli ufo siano ritornati in auge. È vero, ci sono congiunture in cui si guarda il cielo più spesso e si vedono luci che non siamo in grado di spiegare e alle quali attribuiamo i più diversi significati. Ma hanno sempre a che fare con i bisogni di quel preciso momento storico, sia a livello individuale che dell’intera società».
Il vostro libro è nato nel tempo della pandemia?
«No, noi lo stavamo già scrivendo, anzi l’idea è dei primi anni Zero. Eravamo già sintonizzati su questi oggetti non identificati che ci spingono a interrogarci sulla nostra identità».
Quella del 1978 era una società in profondo cambiamento. Ci furono fatti collettivamente traumatici come l’uccisione di Aldo Moro o il susseguirsi di tre papi in Vaticano, l’eroina che travolgeva i più giovani. Ma anche manifestazioni femministe, lotte decisive per l’aborto, conquiste per la salute mentale. In questo clima di fermento di ideali, e di fatti inquietanti e irrisolti, spuntano guarda caso gli ufo.
«Gli anni Settanta furono l’ultima grande stagione di riforme spinte da lotte sociali e da conflitti: una cosa alla quale non assistiamo più da tempo. Da un lato oggi può esserci una certa nostalgia verso quel tempo. Ma anche la spinta a interrogarci sul perché non si è mai più verificata una stagione simile: se mettiamo in fila le riforme di quegli anni, nel giro di pochissimo si ottenne quanto non si è riuscito a raggiungere in vent’anni. Non solo. Anche dal punto di vista culturale è stata una stagione straordinaria: la cultura dal basso, underground, è un altro aspetto di cui si sente la mancanza. Oggi intorno a noi ci sono tante piccole sacche mainstream. Che non approdano mai a una vera controcultura».
Non abbiamo fatto del tutto i conti con la conflittualità sociale degli anni Settanta. È questa, forse, la ragione per la quale a quell’epoca torniamo di continuo, al cinema e attraverso i libri?
«La conflittualità di quegli anni è stata archiviata rapidamente perché mezza generazione è morta di eroina, o è andata in India o è finita in galera. Ma restano ancora tantissimi nodi da sciogliere. Nonostante siano continuamente esplorati e rievocati, gli anni Settanta rimangono un irrisolto, un buco nero. E noi ci muoviamo lungo i bordi di quella voragine».
Viviamo un tempo di complottismi continui e diffusi, alimentati dalla Rete. Possiamo ancora prenderli sul serio?
«I complotti ci sono e ci sono sempre stati. Perché ci sia un complotto le condizioni sono semplici: è sufficiente che più persone si mettano d’accordo, all’insaputa di un’altra, per nuocerle. I complotti avvengono in ogni ambito: in un collegio di docenti, nella giuria del Premio Strega, nel crimine organizzato, nella politica, nelle redazioni dei giornali. I complotti sono in realtà una cosa molto banale sulla quale vengono costruite fantasticherie. Riguardo agli anni Settanta i complotti si sprecano. E se non riusciamo a fare i conti con quel tempo è perché continuiamo a pensare che fosse tutto manovrato: dal Kgb, dagli americani, c’è una dietrologia che impedisce ancora oggi di capire le reali dinamiche di quella stagione. E gli ufo diventano una sorta di allegoria: si cerca di trovare fantomatici agenti che stanno dietro, per non vedere la realtà che c’è davanti, sotto i nostri occhi».
Ma voi vi sentite ancora gli alieni dell’editoria?
«Sì, ci sentiamo ancora molto alieni. “Funzioniamo” in modo diverso da tanti altri autori: non andiamo in televisione, non ci facciamo fotografare né riprendere, appariamo dal vivo solo durante le nostre presentazioni, non prendiamo parte a dibattiti e controversie. Ci esprimiamo con i libri e nel nostro blog. Da questo punto di vista ci sentiamo ancora outsider e alieni. A modo nostro siamo riusciti a non fare troppe mediazioni al ribasso. E questo ci rende extraterrestri, extradimensionali».
Ci sono, nel mondo editoriale attuale, altri alieni in circolazione?
«Ovviamente ce ne sono ancora, è vero però che gli autori si devono adattare a diktat sempre più forti. Abbiamo l’impressione che la spinta all’omologazione sulle generazioni più giovani di noi sia più incisiva di quanto non fosse nei nostri venti anni. E comunque noi avevamo a disposizione sacche di alienità nelle quali identificarci: il punk, il dark, o altri strani personaggi con i quali sentirci un po’ extraterrestri. Oggi la pressione a fare come tutti è aumentata in maniera terrificante. La potremmo chiamare forza di gravità terrestre: che trattiene, e anzi schiaccia».
E chi c’è dietro questa forza?
«È regolata da algoritmi che spingono ad adottare precisi modelli estetici e comunicativi. Algoritmi dei social, prima di tutto, o di YouTube, che ti spingono a fare e a vedere sempre cose molto simili. In un ambiente con meno indicatori era più facile andare fuori strada e, deviando, scoprire cose che non si stavano cercando. Con gli algoritmi che regolano anche la cultura, la serendipity, la possibilità di trovare qualcosa di imprevisto e di sorprendente, è sempre più difficile. Quando accade però è ancora più interessante. Un miracolo laico».
Tra chi resiste - case editrici indipendenti, autori che come voi non si fanno condizionare dal mercato – si può rintracciare un “New italian epic”, come definivate quel particolare tipo di narrativa metastorica che accomunava una precisa generazione di scrittori?
«Ciò che è proseguito, rispetto al memorandum del New italian epic, è la tendenza all’ibridazione, all’oggetto narrativo non identificato. L’ibridazione è una modalità di scrittura alla quale molti autrici e autori fanno ricorso, quando sentono le gabbie del romanzo, dei generi, troppo strette: forzandole scoprono, appunto, l’oggetto narrativo non identificato. Un esempio può essere la trilogia di “M” di Antonio Scurati, che lui ha chiamato romanzo documentario, romanzo di non finzione».
Anche “Ufo 78” è un oggetto narrativo non identificato?
«Sì, perché simula il romanzo d’inchiesta, contiene testimonianze, c’è la bibliografia e anche il follow-up dell’inchiesta. Se non ci fosse scritta la parola “romanzo” in copertina, un lettore – magari straniero - potrebbe scambiarlo per un reportage narrativo, o per un lungo testo d’inchiesta che usa le tecniche letterarie».
Il monte Quarzerone, antri inesplorati, piccoli centri della Lunigiana più noti per funghi e castagne che per creature insolite... Il libro è ambientato in una curiosa interzona d’Italia, neanche troppa nota. Non è certo una scelta casuale.
«No, ovviamente. È un territorio ibrido. Non si capisce bene, volutamente, in che regione ci troviamo: è un po’ Liguria ma anche un po’ Emilia e un po’ Toscana. Tutto insieme. C’è una Lunigiana molto credibile, grazie a un consulente che abbiamo avuto durante la scrittura. Ci siamo ispirati in generale all’Appennino e abbiamo voluto creare un’interzona dove potesse succedere qualcosa di particolare e misterioso».
Le elezioni hanno appena fotografato un’Italia nuova, per certi aspetti anch’essa aliena. Che cosa vi aspettate?
«Auspichiamo grande conflittualità sociale. I segnali c’erano già prima delle elezioni, con la ripartenza dello sciopero globale del clima. C’è una radicalizzazione sensata e importante di una nuova generazione di giovani, che la pandemia aveva frenato e che ora è in ripartenza. Ragazzi che non si sono fatti condizionare dalla campagna elettorale e che hanno mantenuto autonomia di discorso. Ci aspettiamo una conflittualità sociale all’altezza della sfida, capace di immaginare per il Paese scenari davvero nuovi».