Esile e sinuosa, Anaïs Drago si muove sul palco come un folletto indemoniato. Con il suo violino improvvisa assoli, disegna eleganti arabeschi, dialoga con la giovane batterista Francesca Remigi e Bruno Chevillon, maestro francese del contrabbasso. Di recente i tre musicisti sono stati a Roma per il concerto del premio Siae 2022, all’Auditorium Parco della Musica, in collaborazione con il mensile Musica Jazz, che quest’anno ha proclamato la violinista come miglior nuovo talento a pari merito con Remigi.
Una donna alla batteria l’altra al violino, due mosche bianche nella scena jazz. Biellese, 29 anni, Drago è la rivelazione dell’anno, in nome dell’eclettismo: ha duettato all’Aquila con il trombettista Enrico Rava, mostro sacro del jazz («Ho passato il giorno dopo a piangere, per lo stress positivo», dice lei), ha accompagnato il cantautore Ultimo nel suo tour negli stadi, è intervenuta come relatrice alla conferenza TedX a Novara, ha portato in giro per l’Italia il suo ultimo album, “Solitudo” (Cam Jazz), che reinterpreta le musiche di Erik Satie. «Suonare il violino nel jazz è già una cosa strana. In più, se sei donna, è ancora più strano. Ho sempre cercato di trarre vantaggio da una situazione di svantaggio, trovare stimoli, non farmi scoraggiare. Nel mondo del jazz c’è un problema evidente di pari opportunità», esordisce la violinista, capelli corti biondi, coppola blu e outfit color ruggine, prima di salire sul palco.
Anaïs Drago, le donne sono discriminate nel mondo della musica?
«Basta guardare i numeri. La percentuale femminile nei palinsesti dei festival jazz sta crescendo ma è ancora del tutto squilibrata a favore degli uomini. È un tema a me molto caro, viviamo in un’epoca in cui si creano modelli a cui ragazze e ragazzi possano aspirare».
È a favore delle quote rosa?
«Non si tratta di fissare percentuali, ma bisogna prestare maggiore attenzione al tema. Il mio strumento è unisex, soprattutto nella musica classica. La batteria è diversa: quando dico che suonerò con una batterista, avverto nell’interlocutore una sorta di straniamento. Come se chiamassi un idraulico e a casa arrivasse una donna. Bisogna desessualizzare la figura del musicista, in un uomo può esserci un approccio femminile e una donna può avere una sensibilità maschile».
Per la prima volta due musiciste si sono aggiudicate ex-aequo il premio come miglior nuovo talento italiano. Che effetto le fa?
«Sembrerà strano, ma il fatto di averlo vinto con Francesca (Remigi, ndr) è la cosa migliore del premio. È una bella soddisfazione ma resto un po’ incredula. Non so quanto ci sia di jazz in quello che faccio, la mia musica è molto trasversale, ma non voglio farmi troppe domande. Il jazz è il canale attraverso cui sono riuscita a esprimere tante idee che sarebbero rimaste incompiute».
Lei ha cominciato a suonare a tre anni e mezzo. Un destino ineluttabile?
«Ho iniziato a quell’età perché la mia scuola, il metodo Suzuki, si basa sull’apprendimento della musica in età prescolare».
Se non la musicista cosa avrebbe fatto?
«In realtà dopo le scuole superiori ero molto indecisa, volevo iscrivermi alla facoltà di Lettere antiche o di Fisica, la scienza mi affascina molto».
Anche sua sorella è violinista, di musica classica. Come vive la competizione?
«Non c’è mai stata competizione. Lei ha sempre voluto fare la musicista classica, oggi lavora nell’orchestra sinfonica di Rostock, in Germania. Io invece a 15 anni ho iniziato a suonare folk e altri generi musicali. Facevo un sacco di serate nelle birrerie, mi divertivo da morire. Lì ho capito che poteva essere la mia strada».
Il violino ha almeno due componenti, una dionisiaca e una diabolica. Quale prevale nel suo caso?
«L’elemento diabolico comprende anche quello erotico, dionisiaco. Basti pensare al “Trillo del diavolo” di Giuseppe Tartini e a Stravinskij. Questo aspetto lo avverto molto, mi sento un po’ spiritello. L’altro elemento riguarda la spiritualità. Nel mio album “Solitudo” questa dimensione spirituale, non religiosa, è molto forte».
Lei abita con suo marito in una casa vicino al bosco, in un paesino del Biellese, Graglia. Il contatto con la natura la avvicina alla sfera spirituale?
«Niente affatto. Quando sono a casa, a contatto con la natura, vivo la vita di tutti i giorni, tendo a rigenerarmi. Quando sono in tournée, invece, mi capita di riflettere, rielaborare tutto quello che mi accade, accedo a una dimensione più spirituale».
Si è laureata con una tesi su Frank Zappa. Cosa pensa di lui?
«È un personaggio non abbastanza celebrato. O meglio, non esistono vie di mezzo: c’è chi lo idolatra, ne conosce vita, morte, e miracoli, e chi semplicemente lo ignora. Mi sono avvicinata a lui quando ho pensato all’argomento della tesi del biennio di composizione e arrangiamento. Ero molto attratta dalle sue sonorità progressive rock, non lo conoscevo come personaggio, il suo formidabile anticonformismo, la sua biografia. Ciò che ammiro di più in lui è la trasversalità assoluta, il coraggio che nel suo caso arriva quasi alla sfrontatezza. Ma quelli erano gli anni Settanta».
Quest’anno ha affiancato Ultimo nel suo tour negli stadi. Cosa vi lega?
«Non abbiamo un rapporto stretto, lui ha una sua dimensione privata che vuole preservare. Come tutti i musicisti della sua band, lo rispettiamo molto. Lui si fida ciecamente di noi, ci unisce un legame invisibile: ama gli strumenti ad arco, non ne ha mai fatto mistero».
Nel suo disco “Solitudo” lei è solista, anche se grazie all’uso di effetti le corde del violino si moltiplicano fino a raggiungere volumi orchestrali. “Solitudo” è un elogio della solitudine?
«Assolutamente no, non mi sento sola. Quel disco è legato alla lettura di alcuni libri di Oliver Sacks sul funzionamento del cervello, in particolare “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” e “Musicofilia”. La mia “solitudo” è una sensazione di completezza interiore, sia nel raccoglimento intimo, che nel rapporto con gli altri».
La solitudine non è una condizione negativa ma non mancano sfumature più scure del termine, come nel suo brano “Minotauros”, rilettura del mito del Minotauro narrato dallo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. Cosa la attira del mito?
«Mi ha sempre affascinato, fin dai tempi del liceo. Mentre scrivevo l’album “Solitudo” ho trovato su una bancarella “Il minotauro” di Dürrenmatt, l’ho ricomprato e riletto. È stata una folgorazione! Ho un rapporto molto intenso con questo pezzo: mi sono immedesimata nella figura del Minotauro, che è solo e quando arriva la fanciulla la uccide per troppa contentezza. Ecco, ho temuto di essere diventata un po’ un Minotauro: a forza di suonare sempre da sola, ho avuto paura di stritolare le persone con cui mi trovavo».