Si faceva chiamare Elios, è stata spinta al suicidio dal muro di incomprensione che la circondava a scuola e nella società. Una battaglia che ora suo padre combatte in suo nome: «Perché non sono loro quelli “sbagliati” ma chi li rifiuta, li offende, li esclude»

Quanto pesa il silenzio nel suicidio di un figlio? Come si sopravvive all’assenza della persona che si ama più di ogni altro al mondo? Siamo nel nord Italia, Elios era una persona di 15 anni non binaria. Una persona, specifica il padre Dante che oggi ha deciso di raccontarsi: «Per continuare a darle voce. Per aiutare chi non vuole, non capisce, non vede a mettersi in ascolto».

Lo scorso anno Elios si è buttata dal quarto piano di una palazzina residenziale. Ha perseguitato il progetto di suicidarsi con estrema determinazione. Un volo nel vuoto, quasi a cercare un corrispettivo concreto a quel vuoto di aspettative che l’omotransfobia ti scava intorno.

«Aveva una capacità empatica rara, entrava in relazione con l’altro in un modo che le apparteneva soltanto». Gli occhi di Dante sorridono, elettrizzati e tristi. Liquidi e ombreggiati. «Dava a ogni affetto la sua custodia. Noi avevamo un nostro modo di condivisione: i giochi di parole. Con la sorella più piccola condivideva la musica. A ognuno il suo mondo. Leggeva tanto, amava la mitologia e i grandi classici».

È una storia questa che racconta la barriera del silenzio che spesso i genitori non riescono a varcare. Non sentono, non vedono, non capiscono cosa accade nella cameretta dalla porta chiusa. Qualcuno ci prova ma non è mai semplice. I gesti, i misteri, i dettagli. Dante li racconta e li riporta al cuore: la fragilità, la paura, la rabbia, l’incapacità da adulti di vedere e sentire: «Io e sua madre abbiamo divorziato anni fa. Elios aveva 4 anni». Inizia a scoprirsi intorno ai dieci anni, rifiuta qualsiasi etichetta di ruolo di genere dai vestiti ai giochi. «A tavola faceva sentire la sua voce: quando si parlava di diritti Lgbt, migranti, ambiente». La generazione di un tempo acceso, vigile sul futuro.

«Nel raccontare di sé parlava per interposta per persona. Ma io capivo. Un padre lo sa. Un giorno mi ha riferito l’esigenza di procurare un binder (n.d.r un corpetto che si porta sotto i vestiti in modo che il seno risulti piatto) per un suo amico trans. Risposi: se è per il tuo amico bisogna parlare con la famiglia, non posso sostituirmi ai genitori. Se invece è per te non c’è problema, parliamone».

«Era un percorso di maturazione. Quello che mi preoccupava era la società intorno a lei. La città, piccola, fortemente cattolica. Un giorno le chiesi: a scuola cosa si dice? A scuola non se ne può parlare, rispose. Lì ho iniziato a preoccuparmi. Pensare a un luogo dove non puoi essere te stesso dalle 8 del mattino alle 13 non regala buone aspettative».

A fine ottobre Elios scappa di casa dalla madre e si rifugia dal padre: abbiamo litigato posso dormire qui? «Succede. Nelle famiglie normo-costituite non hai alternative. Nelle famiglie allargate puoi scegliere». Dante non aveva idea: delle pianificazioni suicidarie, del rigetto della madre, di un Elios apatica, chiusa, inappetente. Lo scoprirà solo dopo. Quando Elios inizierà un percorso di psicoterapia: «Per Natale mi aveva chiesto un buono da spendere su un sito che aiutava la comunità Lgbt all’estero. Costava troppo. Decisi allora di regalarle delle magliette con le bandiere genderfluid. Era fine dicembre, scartò il pacco e sembrava delusa». La sera uno scambio di messaggi su Whatsapp che Dante ancora conserva e legge con voce rotta: «Mi ha fatto piacere quel regalo. Ma il problema è che la bandiera sbagliata. La mia bandiera è questa sono una persona non binaria».

Su Whatsapp l’immagine di una bandiera gialla, bianca, viola, nero. «Vedi papà? È diversa. Questa è la bandiera giusta, mi sento non binary sempre». «Possiamo restituirla». «No problem, le ho già colorate io. Grazie davvero. Il fatto che non sia una ragazza non significa che non sia io. Il mio nome per adesso è Elios. Ho cercato a lungo nomi tradizionali e non mi facevano impazzire. Poi ho trovato i nomi nei miei libri sulla mitologia greca. Uso la schwa ma anche la a del femminile». «Ricordati che sei sempre una persona bellissima, non dimenticarlo mai».

«Sentivo che c’era una fatica nelle sue parole. Chiesi se lo avesse detto alla madre. Rispose che lo sapeva: ma era come se lo avesse dimenticato». Per gli adolescenti Lgbt comunicare la gioia della propria identità apre spesso al rischio di un “conflitto” tra loro e chi gli sta intorno. Un conflitto espresso o sotterraneo, comunque difficilissimo da reggere. Essere giovani e non avere una “casa” nelle parole degli altri apre a un tempo di mortificazione e sopportazione.

«Pochi giorni prima che si buttasse nel vuoto andammo con la madre dalla psicoterapeuta. Ci disse che Elios aveva bisogno di essere accettata. La risposta della madre fu dura: non ho nessun problema con quella gente lì».

Dei tre giorni prima del suicidio, del tumulto, del disordine, dello sgomento, della resa di una ragazza di quindici anni nessuno sa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva? Non si sa, nessuna relazione potrà mai raccontarlo.

«Ho provato a ricostruire quei giorni in cui qualcosa si è rotto definitivamente dentro Elios. Non ci sono mai riuscito. Non c’è un momento unico che torna nei ricordi e va al suo posto. Forse non si raccontava molto perché aveva paura di aprire un conflitto tra me e sua madre. Credo che il suo pensiero fosse “non voglio scappare dalla mamma, voglio che lei mi accetti”».

Non aver visto il pericolo, l’angolo cieco, quello che l’occhio non trova è l’impotenza del padre. Se avessi capito prima, se avessi visto forse avrei potuto.

«E invece non avevo visto. La sera prima mi aveva parlato dei fumetti che leggeva, delle serie tv che avrei dovuto vedere».

Poi è un attimo, tutto cambia. Prima la vita di sempre, dopo più nulla. Non ci sono più le mani di tua figlia né i suoi occhi, non c’è più l’odore dei suoi vestiti nei giorni o la sua voce. Fine. Cosa si fa allora? Quando la tua vita cambia in un istante e ti porta da un’altra parte?

«La voce di Elios era forte anche se finale. Ho capito che tutto quello che posso fare e continuare a dire chi era, per non tacere la sua storia. Sono convinto che la negazione e la cancellazione della sua identità (e della sua persona) abbiano avuto un peso determinante nella sua scelta di lanciarsi dal quarto piano senza minimamente proteggersi dalla caduta. Amo mia figlia ancora di più perché comprendo ancora di più la fatica che l’ha portata a decidere di suicidarsi. Non posso cambiare la sua decisione. Posso conservare intatta la memoria dei momenti ma non perdermi dentro, agisco attraverso».

Un’associazione ha proposto di dare il suo nome a una casa arcobaleno: «Mi piacerebbe che, nel sentire la sua storia, chi si trova nella sua situazione possa pensare che il suicidio non sia l’unica soluzione. Nel mondo esiste un posto per tutti. Ci si può dire, si può dare voce a sé stessi. Nessuna identità è indicibile o proibita. Non sono loro quelli “sbagliati” ma chi li rifiuta, li offende, li esclude».

Oggi Dante sensibilizza attraverso il suo lavoro da formatore gli adulti su tematiche di inclusione: «Perché possano comprendere che i figli si amano e basta, non si giudicano (tanto meno per la loro identità o per il loro orientamento). Perché possano magari interrogarsi su che cosa significa la loro reazione e capire che possono fare la differenza per i loro figli. Se, in tutto questo, anche una sola persona cambia idea, credo che sia già un piccolo dono realizzato da Elios. Una vita in più».

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