I neopresidenti di Senato e Camera hanno citato Francesco. Ma si guardano bene dal seguire le sue posizioni sull’immigrazione

C’è un particolare interessante nei discorsi che Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana hanno pronunciato in occasione del loro insediamento: entrambi hanno evocato papa Francesco. Negli insediamenti delle più recenti presidenze di Camera e Senato - Fico, Boldrini, Casellati, Grasso - non c’era quel riferimento, a prescindere dalle differenze ideologiche. Il saluto deferente (sic!) al Papa era invece usuale nei discorsi più risalenti, quelli di Fini, Casini, Violante e per eccesso anche Pivetti, la quale in un delirio di onnipotenza evocò sulla propria elezione addirittura l’Altissimo. Salutare il Papa nel contesto di un insediamento istituzionale non è da tempo più normale, né è mai stato normale il reciproco, visto che nessun Pontefice si è mai riferito ai presidenti di Senato e Camera nel suo discorso di investitura.

 

Cosa significa nel 2022 citare un’autorità spirituale mentre si presiedono le istituzioni di uno Stato laico? La faccenda non riguarda papa Francesco, al quale immagino non cambi niente se lo salutano o no in seduta parlamentare. Nominare il Pontefice serve invece a qualificare chi lo fa davanti alla sua comunità di appartenenza ideologica. Il sillogismo è tutto elettorale: se ti riconosci in quest’uomo e pure io mi riconosco in lui, allora tu puoi ben riconoscerti in me. Che vantaggio ci sia nel tirare la giacchetta al Pontefice in questa maniera si fa presto a capirlo: l’omofobo conservatore Fontana, difensore della cosiddetta famiglia tradizionale, nomina il Papa per dire che la sua idea di società è conforme al Vangelo e che per questo lui è contrario all’omosessualità e all’aborto. Spiace doverglielo ricordare, ma questi esercizi di libertà personale sono garantiti da leggi dello Stato a cui sta giurando fedeltà. Se tra Chiesa e Stato Fontana preferiva la prima, forse doveva tentare la carriera vescovile, non quella del politico della Repubblica, anche se quest’ultima ha l’indubbio vantaggio di essere meno selettiva, come prova la sua elezione.

 

Peccato che Francesco, al di fuori della materia familiare, abbia posizioni che Fontana si guarda bene dal citare, per esempio sui migranti, verso i quali il Papa ha pronunciato frasi che per anni abbiamo inutilmente sognato di sentire sulla bocca dei governanti cosiddetti di sinistra. È di appena due settimane fa il focoso discorso in cui ha definito l’atteggiamento dell’Europa verso i migranti come «peccaminoso, disgustoso e criminale», citando la pratica di lasciar morire le persone in mare senza soccorso durante i pericolosi attraversamenti del Mediterraneo e soprattutto i respingimenti in Libia, dove vengono messe in campi di detenzione che il Papa non ha avuto il minimo dubbio a definire lager. In pratica, il Papa parlava della politica della Lega di cui Fontana è vicesegretario, nonché dell’operato da ministro dell’Interno di Matteo Salvini, del quale il neoeletto presidente della Camera è braccio destro e testimone di nozze. Su quello Fontana non ha detto una parola, perfetto interprete della fede cattoleghista a macchia di leopardo, che usa della dottrina cristiana solo quello che conviene e scarta con astuzia il resto. Bisognerebbe dare un nome a questa nuova religione, almeno per rispetto verso chi la coerenza col Vangelo la ricerca davvero, fuori e dentro le istituzioni.