Dicesi mostro sacro quel qualcosa che per il suo passato illustre incute un timore reverenziale al punto che diventa intoccabile. La divina Greta Garbo per esempio, a cui si ispirò Cocteau per l’omonima commedia. O frugando nei nostri giorni, la serie “Boris”, riconosciuto monumento della satira televisiva, fontana d’ispirazione inesauribile, paniere di citazioni e risate, luogo in cui dal 2007 a oggi si è sgomitato per conquistare un posto nella prima fila dello spettatore fedele.
Eppure la tendenza ostinata a voler rimettere mano alle cose ben fatte è una tentazione irresistibile a cui sembra impossibile sottrarsi.
“Boris 4” (Disney +), la quarta stagione più attesa che memoria seriale italiana ricordi, parte di slancio: il cast originale ricostituito praticamente per intero, stessa ambientazione, stessi personaggi questa volta al lavoro su una rivisitazione della vita di Gesù con le mollette in testa, in cui le comparse con il crocifisso tatuato sono tacciate di spoiler. Come si dice, difficile che qualcosa vada storto. Invece la frenata è dietro l'angolo. Perché più che una semplice scommessa, si trasforma in un puro azzardo che si poteva evitare con serenità, a dimostrazione una volta tanto che l'effetto nostalgia da solo è un po’ pochino.
Non tanto perché la storia è smarmellata, le battute sono poche, i tormentoni due (“Non lo famo, lo dimo” e “Pepperoni”), gli ammiccamenti troppi e gli sprazzi contemporanei a caso, come un compito a crocette, dall’algoritmo al politicamente corretto.
Quello che si digerisce a fatica è proprio il ritorno, che formalmente non tocca le fondamenta originali ma in realtà le svuota e trasforma un colosso in una blanda figurina bidimensionale. In sintesi “Boris 4” regala perle sparse, a partire dalle battute al contagocce del sempre inaudito Corrado Guzzanti (di cui basterebbe «Gesù moltiplicava pani e pesci, tutto a mente»). Ma più che una sberla satirica è un buffetto che ricorda “Gli occhi del cuore”, la fiction caricaturale sul cui set si rispecchiava il pressappochismo di un intero Paese.
Ciò che resta, al di là di momenti alti e struggenti su cui aleggia lo spirito indimenticabile di Mattia Torre, è un pesce rosso di diciassette anni, che se non fosse stato costretto a ricomparire nessuno avrebbe sentito il peso del tempo passato, bastava lasciarlo lì, fermo nella memoria. Come un mostro sacro.