“Io vorrei chiedere a Giorgia Meloni come fa a dire di essere cristiana e non fare i conti con un versetto fondante la fede, quello in cui Gesù dice: “Ero straniero e mi avete accolto”…
Michela Murgia, scrittrice abituata al contraddittorio, alza la posta del suo impegno per l’inclusione e il rispetto delle differenze. E affida le sue nuove riflessioni a un coraggioso pamphlet, colto e ironico, teologicamente importante e umanamente prezioso: “God Save the Queer” (Einaudi). Catechismo su questioni cruciali e contemporanee: si può essere femministe e cattoliche? Può coesistere la fede con la libertà di scegliere ciò che è bene per sé e per il proprio corpo? Spoiler: sì. Anzi, la fede può essere un’alleata sostiene Murgia, in questo dialogo con Nichi Vendola, per anni protagonista della vita politica e sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti.
Michela Murgia: «Partendo da una domanda, si presume che nel libro ci sia la risposta. Devo deludere: non c'è una risposta univoca, c'è un percorso di ricerca che ha diverse uscite, tutte possibili. Ma già il fatto che siano possibili, rompe l'idea della religione cattolica e della fede fatte soltanto di risposte ferree e valori non negoziabili. La chiesa non è un monolite, ma uno spazio di pluralità. Nelle pieghe di quella pluralità ci sono risposte che permettono inclusione».
Il suo libro fornisce strumenti argomentativi per affrontare contraddizioni, spesso solo apparenti in realtà, tra vita e insegnamenti evangelici. Vendola, lei ha un compagno e un bambino, non certo una famiglia tradizionale. Come tiene insieme le sue scelte di vita e la sua fede?
Nichi Vendola: «Il Dio che si presenta nelle Sacre Scritture ad Abramo è il dio dell'Alleanza, della convivialità, dell'amicizia tra i popoli. Sono i discendenti di Abramo che costruiscono una sorta di lottizzazione di questo Dio, rivendicando l'assolutezza della propria verità e interpretazione. Ogni confessione rivendicherà a mano armata il monopolio di Dio, il cui nome sarà il sigillo del potere del clero. Il Vangelo torna sulla promessa dell’alleanza e il figlio di Dio si fa carne e sangue per annunciare l’amore smisurato del Padre. Il mio vescovo, Don Tonino Bello, beato della Chiesa cattolica, in una preghiera bellissima scriveva: “Signore salvami dall’arroganza di chi non ammette dubbi e dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone”. Io sento la sfida dell’annuncio cristiano e non il ricatto del tradizionalismo e dell’integralismo. Vivo la mia famiglia nella sua allegra e faticosa normalità: siamo genitori, portiamo nostro figlio a scuola, lo educhiamo all’accoglienza e al rispetto altrui. Felici e circondati dall’affetto del quartiere e della comunità scolastica».
È stato sempre tutto così sereno?
N. V.: «No, tutt’altro. La società è stata profondamente omofoba e in parte lo è ancora. La Chiesa è stata ossessionata dal controllo dei corpi e della morale sessuale e la sua omofobia violenta era anche una maschera per nascondere la doppia morale degli abusi e della pedofilia di pezzi del clero. Non potrò mai dimenticare il tempo degli anatemi contro di noi, contro il pride, contro la nostra libertà nel nome di quei principi etici non negoziabili che seminavano intolleranza. In quella “non negoziabilità” c’era la negazione della mia, della nostra vita. Papa Francesco ha avuto il coraggio di archiviare il Dio dei pregiudizi. “Chi sono io per giudicare un gay?” è la frase, evangelica, che ha licenziato la violenza lessicale del passato».
M.M.: «L'espressione era "disordine oggettivo": Dio ha creato tutto bene e tu sei l'errore. Prova a crescere, da credente, con questa etichetta!».
N. V.: «Con un’aggravante: che la morale cattolica pretendeva di coincidere con una non meglio identificata morale naturale. Quando tu compari le espressioni della vita e della natura ti accorgi che il vivente non si lascia ridurre a uno schema, ma ha una varietà caleidoscopica di espressioni. Le diversità sono fondative dell’esperienza umana, non sono una minaccia ma una ricchezza. Per questo io oggi mi sento più a mio agio con la chiesa di Bergoglio rispetto al magistero trionfante e in technicolor di Wojtyla e alla durezza dogmatica di Ratzinger. La fede però non riesco a viverla come certezza. Perché si conquista giorno per giorno. Trovo intollerabile esibirsi nella vita pubblica in rapporto alla propria fede».
M. M.: «La fede ridotta a certezza naturale aiuta la destra conservatrice, fanatica, xenofoba e omofoba. Quando vedo la destra che cerca di sottrarre diritti, di erodere quelli che ci sono, di ridurre gli spazi di dignità delle persone attraverso argomenti religiosi, provo un dolore terribile. Giorgia Meloni che dice: “Io sono cristiana”; Matteo Salvini che fa le interviste con la Madonna e Padre Pio appesi dietro, gli interventi di Pillon o del presidente della Camera che dice “Io sono sono un cattolico” e ringrazia Papa Francesco durante l’insediamento dicendosi garante dei nostri valori, come se facessero lo stesso lavoro, è per me problematico. Perché nel momento in cui la chiesa sembra avere aperture, la politica si serve della parte più retriva della dottrina per proteggere le sue posizioni. Da donna, da femminista, da cattolica mi sembra che io debba difendere da un lato la mia idea di umanità dalle riduzioni a un'unica visione, dall’altro la mia idea di fede dalla strumentalizzazione: io non voglio che la fede sia utilizzata come accetta per mutilare tutte le forme di umanità che non rientrano nella visione della destra conservatrice. Però mi sembra che la sinistra, come ha abbandonato il concetto di Patria, stia abbandonando la questione della fede».
A destra si esibiscono i simboli cristiani. A sinistra la fede è un fatto privato?
M. M.: «In queste settimane ho parlato con molte persone di sinistra. Anche tra gente che conoscevo bene, ho scoperto percorsi di impegno insospettabili. C’è un pudore che fa considerare la fede un fatto privato, ma questo diventa problematico nel momento in cui c'è una parte politica che la utilizza come argomento pubblico».
N. V.: «Come può, secondo te, una sinistra che ha dismesso il tema dell'alternativa, porsi il tema della trascendenza? Non che tocchi alla politica disputare del cielo e di Dio, eppure il cristianesimo ci provoca sul terreno dell’eguaglianza. E Bergoglio si confronta sul terreno della modernità, mentre registriamo una deriva delle religioni nel mondo: pensiamo all’oscenità guerrafondaia e omofoba delle parole del patriarca Kirill I, pensiamo alla polizia morale in Iran o alle sette evangeliche in America che, con la Bibbia nella mano destra e il revolver nella sinistra, inneggiano a Trump o a Bolsonaro. Il mondo cattolico ha vissuto un’epifania con il Concilio Vaticano II, immaginando una chiesa compagna dell'umanità. Qui c'è la bellezza del Cristianesimo, la cui profezia sovverte i simboli del potere per incarnarsi nella storia umana attraverso i simboli dello spossessamento. Il regno viene celebrato su un trono fatto da due legni in croce e una corona di spine. “Amare, voce del verbo morire”: dirà Don Tonino, nel senso di lasciar morire ciò che ci separa dall’umano perché l’umano è “a Sua immagine e somiglianza”. Certo, ci sono cose che ancora oggi mi mettono in crisi: “Ama il tuo nemico”. Ma io posso amare chi fa della disumanità un programma politico? Chiedo soccorso al marxismo: per imparare non a odiare le persone, ma le idee che spaccano l’unità del genere umano. Posso odiare l’ingiustizia, ma non privarmi della bellezza di riconoscere umanità persino al mio nemico».
M. M.: «Quando ho iniziato a scrivere, volevo capire se si può essere femministe e cattoliche. A mano a mano che andavo avanti sentivo la necessità di arrivare alla queerness, cioè alla possibilità che le strutture dell’identità e delle relazioni siano meno rigide di quanto non si voglia o non si pensi. Tu come omosessuale hai fatto una famiglia. Che per molti versi ripete le strutture della famiglia tradizionale. Questa cosa non è queer. Ed è una questione che ci siamo poste, come femministe, quando siamo scese in piazza per difendere la possibilità che omosessuali e lesbiche avessero un’unione civile parificata. Ci siamo dette: come possiamo chiedere la struttura del matrimonio nel momento in cui il nostro percorso di femministe va nella direzione della distruzione dell'idea di matrimonio, espressione di organizzazione patriarcale? Il femminismo intersezionale ha concluso che è meglio prima raggiungere modelli per tutti, perché concedono diritti, poi discuterli. La fede cristiana consente un passo avanti. Per decenni abbiamo detto: Dio è Padre. E ci compiacevamo quando qualche prete diceva: “Ma è anche madre”. Padre e madre sono categorie del binarismo che appartengono a una visione tradizionale patriarcale: non vuol dire che io combatta l'idea della generatività padre-madre, ma che quei ruoli non possono essere esaustivi dell'identità delle persone. Figuriamoci di quella di Dio! Quindi a me di far rientrare Dio nella visione maschile del padre o femminile della madre, non solo non importa ma lo trovo pericoloso. Non a caso il modello è stato la famigliola di Nazareth. La famiglia di Nazareth non è un contenuto di fede, la Trinità è un contenuto di fede, cioè l'idea di un Dio che è uno e trino, ha tre essenze paritarie e differenziate. Ma non siamo riusciti, dopo 2000 anni, a dire in cosa differenziano e in cosa sono similari, se non concependoli come un flusso d’amore. L'idea della Trinità secondo me è tremendamente queer perché non ha i limiti, non ha i muri, ti dice che dentro quel flusso di amore tutte le forme, le identità, sono sé stesse. Il ruolo del padre e della madre nella Trinità non c'è, non serve. Ora, con questo potentissimo segno a disposizione, non sarebbe il momento di ragionare di queerness non come qualcosa che contraddice la fede, ma che invece la supporta?».
Sa che moltissimi “spietati atei devoti” sono già pronti a contraddirla?
M.M.: «Non vedo l’ora. Ma so anche che il percorso di fede tradizionalista obbedisce alla paura del cambiamento: tutto cambia, ditemi che almeno la religione non si muoverà mai. E invece la trinità ruota. Lo spirito soffia dove vuole, e non lo fermi tu. A me basterebbe ciò per essere cristiana».
Ho la sensazione che il queer turbi e sia più urticante dell'omosessualità.
M. M.: «È così: per il mondo Lgbt, per il femminismo della differenza. Qui entrano in gioco sensibilità personali. Ci sono persone che hanno impiegato una vita per arrivare a una definizione di sé accettabile. La questione è se riconosciamo che un’organizzazione di relazioni a due è limitante. Pensiamo al decreto in pieno lockdown: potete vedere solo i congiunti. In quel momento, ciascuno si è reso conto che le proprie relazioni prioritarie non rientravano nello schema. Io ho una famiglia queer, siamo in otto. Non è scritto da nessuna parte, ma quando sono finita in ospedale sapevo chi c'era intorno a me e chi avrebbe avuto diritto di scegliere per me. Per queste relazioni non c’è una forma legale. Deve esistere? Sì».
N. V.: «Il punto su cui bisogna maturare un'emancipazione radicale è che non siamo persone predestinate a ruoli, a funzioni, non siamo copioni già scritti. Ho lottato tutta la vita, da quando ragazzino cercavo le parole per nominare la mia diversità, per uscire da quello che mi sembrava un cattivo sortilegio: la paura dello stigma e la condanna al silenzio. Noi gay siamo usciti dalle caverne e per farlo dovevamo dirci gay e amare alla luce del sole. E ora facciamo famiglie perché ovunque c’è condivisione, convivenza e amore, lì c’è una famiglia. Non somigliamo alla sacra famiglia? E allora?».
M.M.: «Tutti quelli che cercano di fondare in Gesù una pretesa naturale della famiglia tradizionale si trovano davanti le parole del Vangelo: Io non sono venuto per portare l'armonia, ma per portare la spada tra padre e figlio. Quando Gesù sta predicando in piazza e il suo comportamento sembra folle, qualcuno gli dice: “Ci sono tua madre e i tuoi fratelli, sono venuti a prenderti”, Gesù dice: “Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli? Mia madre e i miei fratelli sono quelli che fanno la volontà del Padre”. Chiunque oggi cerchi di fondare in Gesù Cristo l'idea di una famiglia dove madre, padre, fratelli siano figure cogenti è fuori dal Vangelo».
N.V.: «Queer fa paura perché siamo ancora imprigionati nelle maglie della cultura positivistica, nel bisogno di incasellare ogni fenomeno per controllarlo. Io vorrei potermi ripartorire oggi queer. Ho vissuto un'epoca in cui dichiararsi era cruciale per rifondare l’immaginario e il vocabolario, perfino nelle mie storie d’amore con donne non ho smesso di dichiararmi gay. Perché l'omosessualità era stata il mio apprendimento, la mia coscienza di genere, la scoperta del mio corpo. Ovviamente è solo una etichetta: lotto per una società senza etichette».
M.M.: Ma perché la fede sta tornando nel discorso pubblico?
N. V.: «Perché il mondo non vive senza ideologie. E se ne proclamiamo la fine, quel vuoto viene colmato dal bisogno di grandi narrazioni, di riparo, di comunità».
M.M.: «Però la fede non sfugge alle ideologie. Nel momento in cui Giorgia Meloni dice: noi vogliamo gli immigrati dell'America Latina, perché sono cristiani, usa il principio di cristianità come discriminazione dell'accoglienza. E io sento che come cristiana devo reagire. Non voglio più, come persona di sinistra, dire: la mia fede è un fatto privato. La fede, se c'è, è di tutti».
N. V.: «Sull'Altare della Basilica di San Nicola, a Bari, c’è una decorazione che per alcuni studiosi è la scritta araba Allah Akbar! Ma se venisse oggi quel nero che era il vescovo di Mira, San Nicola, avrebbe un foglio di via».
M.M.: «Agostino era di Ippona, africano».
N. V.: «Ero straniero e mi avete accolto...».
M. M.: «Io vorrei chiederlo a Giorgia Meloni. Come fai a non fare i conti con quel versetto?».