Usa e Russia intessono contatti per disinnescare la minaccia nucleare, mentre i paesi Occidentali sembrano allontanarsi dal sostegno indefinito alla causa di Kiev. Ma Putin vuole ancora dettare le regole al tavolo delle trattative

L’Ucraina, secondo il suo presidente Volodymyr Zelensky, è pronta per una pace «equa e giusta». Ma dall’altra parte c’è un uomo, il presidente russo Vladimir Putin, che ha sempre dichiarato «illegittimo» il governo di Kiev (e quindi invalidato alla base ogni possibilità di accordo tra le parti su un piano paritario). Dagli altri attori internazionali, poi, iniziano a emergere segnali confusi che si discostano dal sostegno «fino alla vittoria e a ogni costo» per l’Ucraina.

 

Circa tre settimane fa il presidente francese, Emmanuel Macron, ha dichiarato in diretta televisiva che nell’eventualità di un attacco nucleare all’Ucraina il suo Paese non interverrà. L’intervistatore ha dovuto ripetere la domanda per avere una risposta netta, ma il capo dell’Eliseo non si è sottratto a quello che è sembrato un messaggio premeditato. Alcuni politici hanno criticato Macron per aver «mostrato debolezza» di fronte alla retorica aggressiva del Cremlino. Non è difficile immaginare il fastidio degli Usa che, al contrario, dall’inizio della guerra si sforzano in ogni modo possibile di dimostrare che l’Occidente è unito in un blocco solido e coeso. È Washington, del resto, che ha scelto di improntare il supporto all’Ucraina su una base ideologica. Esiste un «noi» che è sotto attacco, noi i Paesi democratici noi il mondo libero noi i difensori della libertà, e un «lui» (se applicato a Putin) o «loro» (l’intero popolo russo) che mina alla base quelli che sono definiti i «valori dell’Occidente». Ma questi stessi valori molto spesso non sono granitici.

 

Ne è un esempio l’inchiesta del Wall Street Journal nella quale si legge che Jake Sullivan, il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha avuto dei colloqui regolari con funzionari molto vicini a Putin, tra i quali Yuri Ushakov, suo consigliere per la politica estera, e il segretario del Consiglio di Sicurezza russo, Nikolai Patrushev. All’inizio di questa settimana Sullivan ha anche confermato le rivelazioni della testata americana in un’intervista con la Bbc britannica. «È nell’interesse degli Stati Uniti mantenere i contatti con la Russia», ha aggiunto il funzionario dopo aver spiegato che gli argomenti discussi in tali colloqui sono coperti dal segreto di Stato, ma hanno riguardato anche il tentativo di impedire che la guerra si allarghi e di disinnescare la minaccia nucleare.

Il fatto che un rappresentante istituzionale di un Paese sia incaricato di tenere rapporti diplomatici con un suo omologo non può stupire. Ma allora, ci si chiede, perché continuare ad alimentare questa narrazione della «guerra di civiltà» se persino i protagonisti di questa narrazione sanno che la realtà non è fatta di compartimenti stagni? La risposta è semplice: perché il potere si esercita così.

 

Si pensi che, mentre Sullivan parlava con i consiglieri del Cremlino, il suo presidente dichiarava che «mai» avrebbe incontrato Putin al G20 in quanto espressione di uno «Stato terrorista». La decisione degli Usa di chiudere per sé e per gli alleati ogni possibilità diplomatica ha relegato le trattative occidentali negli spazi chiusi degli uffici di intelligence e spalancato le porte all’ingresso di personaggi come il presidente turco Erdogan, il principe ereditario e primo ministro saudita Bin Salman e il sultano del Bahrein, Isa Al Khalifa.

 

D’altronde, le grandi diplomazie occidentali latitano. Il neopremier britannico, Rishi Sunak, nel suo discorso di insediamento ha menzionato il fatto che la guerra in Ucraina deve finire, ma si è subito messo al riparo da eventuali domande scabrose affermando che «sarà il governo di Kiev a decidere le condizioni della pace».

 

Macron ha proposto la mediazione del Papa, alla quale la Russia si è detta ben disposta, ma a oggi non si registrano sviluppi significativi. In questo clima di confusione, Putin ha ribadito che il suo Paese «è pronto a sedersi a un tavolo per discutere della fine delle ostilità, a patto che si prendano in considerazione le richieste e gli interessi del suo Paese». In altri termini, ora che i territori occupati sono stati annessi alla Federazione Russa, il punto di partenza lo vuole fissare il capo del Cremlino. Sarà per questo che il suo omologo ucraino Zelensky afferma che la «presunta disponibilità della Russia ai negoziati è falsa».

 

Come potrebbe, infatti, accettare che una pace «giusta» contempli la perdita di circa il 20 per cento del suo territorio nazionale. Allo stesso modo Putin non potrebbe giustificare di fronte alla sua opinione pubblica decine di migliaia di morti e nuove sanzioni internazionali senza offrirle in pasto almeno qualche scampolo di rinnovata potenza nazionale. Sarà per questo che il portavoce del dipartimento di Stato degli Usa, Ned Price, continua ad accusare Mosca di fare il doppio gioco. «Se la Russia fosse pronta a negoziare avrebbe smesso di attaccare le città ucraine e uccidere i civili; ma il Cremlino sta facendo il contrario. Sta continuando a intensificare questa guerra».

 

Eppure il fatto che la Russia consideri come proprio interlocutore principale proprio gli Stati Uniti è un elemento fondamentale. Se da un lato questo comportamento palesa la scarsa considerazione che Mosca ha di Kiev, nonostante gli otto mesi di guerra trascorsi, dall’altro aiuta a comprendere che gli interessi in gioco sono più ampi e non riguardano solo qualche centinaio di chilometri quadrati sul Mar Nero.

 

Putin sa che se la Nato smettesse di fornire armi a Kiev gli equilibri sul campo di battaglia volgerebbero a suo favore in breve tempo. Così come è conscio dell’importanza del sostegno economico appena promesso dalla Commissione europea (1,5 di miliardi di euro al mese) per evitare il collasso della fragile economia ucraina. Forse attende che il fronte occidentale si spezzi. Oppure intende approfittare della stanchezza dell’opinione pubblica dei Paesi della Nato e attende al varco mentre invia nuovi coscritti sul campo per tenere le posizioni durante l’inverno. Potrebbe anche darsi che in ognuna di queste ipotesi ci sia una parte di verità, ma intanto il segretario della Difesa statunitense, Lloyd Austin, continua a portare avanti la linea dura contro la Russia.

 

A inizio settimana il suo dipartimento ha fatto sapere di aver parlato con il neoministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, a proposito della cooperazione e del sostegno all’Ucraina, inclusa la fornitura di sistemi di difesa aerea che Usa, Spagna e Germania hanno già iniziato a inviare. Dal lato russo si continuano a progettare le grandi manovre autunnali e il trasferimento di armi e mezzi in Bielorussia, mentre i cosiddetti falchi chiedono di alzare definitivamente il livello dello scontro. Senza contare la decisione di Mosca di ammantare la sua «operazione speciale» di valore ideologico. Siamo alla «guerra santa» contro «l’Occidente satanista e colonialista».