Nella pubblica opinione, sui media e perfino sulle sentenze: gli stereotipi contribuiscono a una narrazione molesta. Espressioni apparentemente benevole e altre decisamente pericolose riaffermano maschilismo e patriarcato. Ecco le parole da bandire

«Quando mi diceva che non valevo niente, quando a cena con amici se ne usciva con quelle frasi, io ridevo. Ci ho messo del tempo. Anni di violenza psicologica. Poi è esplosa quella fisica. Non è stato facile risalire l’abisso che ti inghiotte. Ti salvi solo se tendi la mano e qualcuno la afferra. Io sono risalita da qui». Qui è la Casa internazionale delle donne. Dafne si racconta di fronte a un’intera parete tappezzata di nomi di donne morte per femminicidio. Nella «casa di tutte» ha sede anche l’associazione Cco, Crisi come opportunità che insieme a Urban Vision ha realizzato la campagna #laviolenzanonèunluogocomune, ideata da Celeste Costantino, coordinatrice dell’Osservatorio sulla parità di genere del ministero della Cultura: «La campagna gioca su un doppio livello di falsa narrazione ai danni delle donne: da una parte ci sono gli stereotipi “benevoli”, quelli più vicini a dei proverbi piuttosto che a dei giudizi ragionati, e che costituiscono un ostacolo all’emancipazione dell’immagine della donna nella società italiana. Dall’altra parte invece ci sono quelli esplicitamente pericolosi, quelli che comprendono o addirittura giustificano la violenza sulle donne», spiega Costantino. La lingua indirizza il modo di pensare. Modi di dire come «chi dice donna dice danno», riverberano una visione patriarcale spiega Giulia Minoli, presidente di Cco: «In Italia il 67 per cento delle donne si occupa della cura della casa, il 37 per cento non ha un conto corrente intestato, una donna su due non ha lavoro, ogni tre giorni un femminicidio. Nel 2022 sono state uccise 77 donne. Il dato è drammatico, il momento è difficile ma la crisi è opportunità. Ci mette alla prova. Noi ci siamo».

#laviolenzanonèunluogocomune sarà proiettata su tutti gli impianti pubblicitari digitali di Urban Vision, dislocati sul territorio italiano. «L’obiettivo è incoraggiare le donne a denunciare, a rompere il silenzio e chiedere aiuto prima che sia tardi», dice l’amministratore delegato Gianluca de Marchi. I pensieri, le intenzioni, la memoria e le emozioni si formano sulle parole, spesso si guastano. Lo si può vedere con l’abisso che si è spalancato davanti ai nostri occhi e che parla soprattutto agli uomini, racconta quanto il mondo fuori sia cresciuto deforme dentro di loro. La questione femminile non è altro che una questione maschile: sono gli uomini i primi a doversene occupare. Fermarsi, non solo il 25 (Giornata internazionale contro la violenza) e il 26 novembre (Manifestazione nazionale a Roma) ma ogni giorno, guardarsi dentro e riflettere. Riconoscere i volti della violenza - fisica, verbale, psicologica - e liberarsene.

 

La donna non si tocca neanche con un fiore
L’ex presidente della commissione parlamentare sui femminicidi e senatrice del Pd, Valeria Valente scorre l’elenco della campagna e si sofferma sul primo luogo comune che incornicia il femminicidio: «Una violenza che non ha conosciuto nessuna battuta di arresto anche se è cresciuta la consapevolezza nella società. Sono molti i passi avanti sulle leggi, ma qualsiasi norma deve essere applicata da uomini e donne».

Non c’è altro modo che non sia quello di cominciare dall’educazione. Dal rifinanziamento dei centri antiviolenza che sono luoghi per ribaltare la cultura della sopraffazione, per evitare quando vai a denunciare il tuo ex che ti perseguita o il tuo compagno che ti massacra, che non ci sia, come è successo, qualcuno al commissariato che dica: «Torni a casa». «Questi uomini e queste donne sono anche loro espressione della società. Portatori di stereotipi. Nelle aule di giustizia si fa fatica a credere alle donne. Nei processi di separazione spesso il giudice non considera gli attestati di violenza. Un’indagine Istat del 2019 dice che il 74 per cento delle donne vittime non si racconta neanche a un’amica. Leggere prima la violenza conta. L’aggressione, quando arriva, non è un fulmine a ciel sereno, il tormento di mesi o di anni ha rilevanza».

 

La donna è l’angelo del focolare
«La questione è semplice: senza autonomia economica, non ci può essere una reale indipendenza». È netta Daniela Santarpia, presidente di E.v.a la cooperativa sociale nata nel 1999 a Casal di Principe in un bene confiscato alla camorra e che forma e trova lavoro alle donne in uscita dalla violenza. Fondata da Lella Palladino, E.v.a custodisce storie luminose, come quella di Giusi: «Non avevo nessuna competenza, pensavo di non poter fare nulla. Ho denunciato mio marito dopo anni di violenze fisiche, psicologiche ed economiche. A cinquant’anni sono arrivata sotto protezione al centro antiviolenza. Non pensavo di poter fare niente. Gli anni con lui mi avevano annullata». Giusi che per anni aveva gestito il bar del marito senza percepire un centesimo, si è riscoperta. «Adesso è un nuovo inizio».

 

Mogli e buoi dei paesi tuoi
Nelle rotte dei migranti ci sono i trafficanti, stupri, botte, abusi, mutilazioni. Donne trasformate in giocattoli, fino a che non si rompono. «Spesso sono giovanissime. Quando arrivano qua in Italia sono già devastate. La nostra sensazione è che di loro non importi più nulla a nessuno», dice Oria Gargano, presidente di BeFree, la cooperativa sociale nata nel 2007 per contrastare tratta, violenza e discriminazione.

«Negli anni 90 erano tutte bianche, venivano dall’Europa, oggi sono per lo più ragazze provenienti dall’Africa. Per la gran parte dalla Libia. Torturate e costrette a prostituirsi. Partono da Benin City, poi attraversano tutto il deserto del Niger, arrivano nella Libia settentrionale e lì vengono messe in case chiamate Africa house e che in genere sono gestite dalla mafia nigeriana che spesso collabora con la mafia libica. Destinazione Lampedusa. Queste donne riescono ad arrivare in Italia convinte di trovare accoglienza e invece vengono messe in strada. È un copione rigido: non conoscono la lingua ma vengono istruite per chiedere subito il modulo C2, per il diritto d’asilo, per non essere espulse». Sostenere queste ragazze dopo, aiutarle a ripartire non è mai facile ma è possibile: «Di recente, tra le tante, due ragazze giovanissime sono diventate operatrici anti-tratta. Ci vuole tanta competenza, empatia. Evitare la ri-vittimizzazione. Ci sono molte strade aperte per chi riesce a salvarsi, bisogna dar loro la possibilità di percorrerle».

Donna al volante, pericolo costante
L’avvocata Teresa Manente da 30 anni assiste le donne dell’Ufficio legale di Differenza Donna. Da qui sono passate 48 mila donne ospitate in centri antiviolenza e case rifugio. Conosce bene il coraggio delle donne quando decidono di denunciare, le loro paure, la vergogna del sentirsi a un tratto carnefici e non più vittime, il dover fuggire per evitare il peggio. E le contraddizioni della giustizia: «I pregiudizi contro le donne sono talmente radicati nella nostra cultura e in tutti noi da non permettere di riconoscere la gravità dei fatti denunciati e applicare le leggi. Questo è visibile nelle condanne della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia. Quattro negli ultimi mesi.

L’ultima, emessa su nostro ricorso pochi giorni fa, ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e non protetto i figli di una madre costringendoli per tre anni a incontrare il padre accusato di maltrattamenti, nonostante lo stesso continuasse a esercitare violenza e minacce». Madri ancora oggi considerate alienanti, manipolatrici, malevole. «Mentre gli uomini vengono considerati disperati dall’essere stati “abbandonati” o “delusi” dal comportamento della donna che si è sottratta al loro potere».

L’uomo è cacciatore. La carne è carne
«Ancora oggi le nuove generazione ritengono, a seguito di un’acquisizione stereotipata del mito dello stupro, che l’uomo agisce in base a impulsi naturali e incontenibili mentre la donna scatena questi impulsi». Nella sua carriera di magistrata, Paola Di Nicola si è occupata a più riprese di reati di violenza contro le donne e di pari opportunità. «È ancora radicatissimo il principio per cui l’uomo è cacciatore e la donna è preda. Ci sono vari livelli. C’è quello culturale dove è salda la difficoltà nel riconoscere il valore del consenso: i maschi considerano che non debba essere espresso perché nella rappresentazione che si fa del sesso il consenso non c’è mai, è presunto». Nel Codice penale la parola “consenso” è assente. «I termini ricorrenti sono violenza, minaccia, induzione. Andrebbe riformato. La parola delle donne sul consenso non è mai stata realizzata. La gran parte delle violenze avvengono senza alcuna minaccia. Pensiamo al caso della studentessa di un liceo avvicinata da un adulto. La condizione è di tale soggezione che si resta immobilizzati». Errato anche parlare di violenza sessuale. «La gran parte dei casi avvengono senza violenza e non hanno a che vedere con il sesso. È un atto di potere esercitato da un uomo nei confronti di una donna, sulla sfera intima e senza, bisogna ribadirlo, il consenso».

 

Chi dice donna dice danno
«È una frase estremamente subdola che si insinua all’interno del nostro cervello con una facilità che addirittura superiore a quella di altre locuzioni, per la struttura fonica e ritmica che ha», commenta Francesca Dragotto, direttrice del centro di ricerca “Grammatica e sessismo” dell’Università di Roma “Tor Vergata”. «Sono modi di dire che creano una sorta di cantilena nel cervello, vengono immagazzinate e si riattivano tutte le volte che sentiamo donna e sentiamo danno. Avere ancora nella nostra cultura un’affermazione come questa e come le altre favorisce che nei più piccoli si crei da subito l’idea che vi sia un pericolo nella donna».

 

La mia donna ha due palle così
La storia delle donne è quella della società intera. Sembra dire Loretta Bondi, presidente di Archivia-archivi biblioteche e centri di documentazione, una vita per il femminismo, con esperienze anche internazionali. Ora che si mette in discussione anche il diritto all’aborto, ora che i fondamentalismi cattolici tornano con prepotenza in campo. Ora che per le nuove generazioni, soprattutto per le ragazze giovanissime, il futuro è così incerto bisogna guardarsi indietro per capire da dove ripartire: «In passato la violenza contro le donne veniva concepita come un reato contro la morale. Da qui abbiamo iniziato una riflessione e una battaglia per vederlo come un reato contro la persona. È stato quello che ha aperto la strada a tutte le declinazioni. Le donne si sono sempre dovute battere contro vecchie e nuove forme di violenza: la tratta, i matrimoni forzati, l’infibulazione. Oggi c’è una maggiore consapevolezza che non sempre le nuove generazioni traducono in impegno, come accadeva negli anni ’70.

Archivia custodisce 30 mila volumi ma anche 600 pubblicazioni. Ecco, una volta ci si riuniva intorno a testate come “Effe”, “Noi Donne”, ora sembra che basti un post social. Dentro questo tempo serve un ritorno dei corpi in contrapposizione rispetto a quello che già questo governo sta esprimendo e in contrapposizione con il patriarcato e non in mediazione. Un 25 e 26 novembre costante, che diano luce a un tempo nuovo.