Classici e contemporaneità
Givone e Nucci, il filosofo e lo scrittore sull’isola delle origini
L’accademico ha da anni messo radici in una località segreta dell’Egeo. Dove il pensiero incontra la natura e i miti sembrano reali. Un autore che conosce a fondo il mondo antico è andato a trovarlo
Fino a dieci anni fa, Sergio Givone è stato uno dei più noti accademici italiani. Docente di estetica alle Università di Perugia, Torino e Firenze, autore di romanzi e saggi molto apprezzati e premiati, è stato anche Assessore alla Cultura a Firenze. Nel 2012 però per lui molte cose sono cambiate. E non perché abbia abbandonato i suoi interessi, ma perché è stato in quell’anno magico che con sua moglie Cristina Lorimer, acquarellista e psicoterapeuta, ha scoperto la Grecia. Ora, la scoperta della Grecia è fenomeno molto raro in tempi di turismo di massa, ma quando avviene può assumere i tratti del rapimento estatico. Lo sa bene chi è colpito da questa specie di malattia che si presenta innanzitutto attraverso la luce dell’Egeo e che poi si spande attraverso i quattro elementi nel loro stato puro: il vento che tutto porta via, il mare color del vino, la terra riarsa, il fuoco pericolo costante. Per un filosofo, però, questa scoperta può assumere aspetti iperbolici. E chi per tutta una vita ha fatto i conti con pensatori come Parmenide, Eraclito e Platone, in Grecia può anche lasciarci l’anima, o meglio: può lasciare che l’anima prenda il volo e s’impossessi definitivamente di tutto quello che prima aveva sempre soltanto avvicinato per mezzo del pensiero.
Givone sono venuto a trovarlo nella sua isola. Come se fosse la Delos delle origini, galleggiante sull’Egeo e senza nome, lascerò che abbia le sembianze del luogo magico e anonimo che ognuno di noi vuole sognare. Non è una fantasia, però, la terra rocciosa in cui ci incontriamo. Qui del resto Givone ha messo radici, ha comprato casa e ha fatto i conti con una consapevolezza nuova. Me ne parla con la gentilezza e la discrezione che sono suoi tratti caratteristici, mentre scendiamo verso l’antico porto greco dell’isola, una lunga passeggiata fra cespugli di timo e di lentisco, con il meltemi che soffia teso e il mare spumeggiante all’orizzonte.
È appena uscito il suo ultimo libro, “I presocratici. Ritorno alle origini” (il Mulino, pp. 141, euro 13). Una intensa ricognizione sulle origini del pensiero che – dice – «non avrei mai potuto scrivere senza l’incontro con la Grecia. Tutto quel che conoscevo ha preso una nuova forma. Prima di arrivare qui, credevo che il respiro antico si fosse perduto. Immaginavo che fosse ormai soltanto una meta di vacanze. E invece il paese delle origini non è un’ Atlantide, si sente ancora vibrare. E molte cose adesso me le spiego diversamente. Pensa a questa natura in cui siamo immersi, per esempio. Nel libro ho cercato di raccontare il rapporto che legò i primi pensatori alla natura. Non è molto semplice farsene un’idea perché siamo ormai abituati a una lettura che vede nei presocratici dei pre-scienziati. Le cose invece stanno in maniera molto diversa. Alle domande decisive – da dove veniamo? che ci stiamo a fare? dove andiamo? - la scienza oggi risponde con disincanto: siamo figli del caso; transitiamo in questa vita senza ragione; moriamo. Be’ no, alle origini non sono certo queste le risposte. La natura con cui si confrontano i primi pensatori è una natura in cui ne va di noi stessi, di cui noi facciamo parte, è natura che è costante generazione, e in essa sta il senso del nostro abitare questo mondo».
Abitare questo mondo. Chi ha una minima consuetudine con letture filosofiche non si ferma più a riflettere su espressioni come quelle che Givone usa. Forse neppure lui lo faceva con la stessa intensità prima di arrivare qui e trovare le antiche case cicladiche in rovina che ha comprato e restaurato, scoprendo in esse segreti antichissimi. «Mi sono ribellato a chi pretende di buttare giù e ricostruire, ovviamente. Ma anche a chi ritiene che si debbano sostituire alcuni elementi di case che sono state abbandonate da anni. La verità è che la casa cicladica restituisce un tipo di abitazione che è durato per tre millenni. Semplicità assoluta: grandi pietre, una tessitura di rami di ulivo – ginepro o cedro che con il tempo diventano duri come l’acciaio –, altre pietre e pietra pomice. Luce, temperatura, spazi. Questa soluzione abitativa è rimasta immutata fino al terremoto che distrusse Santorini a metà Novecento. E stiamo parlando di una vera e propria filosofia dell’abitare. Perché la casa non è solo riparo. È disegnare lo spazio, la propria vita, dare forma alle cose. Vedi, per i presocratici la domanda è: che cosa significa abitare il mondo? cosa ha da dirci la natura sul nostro essere al mondo? A noi moderni la natura non dice più niente e non resta che costruirci un mondo artificiale a nostra immagine e somiglianza, purtroppo. Perciò abbiamo ancora molto da imparare dai presocratici, specialmente ora che la natura dimenticata e violata reagisce rendendo il mondo inabitabile».
La discesa si fa ripida. Ci fermiamo all’ombra di un grande fico, albero che Givone ama sopra ogni altro. L’ho scoperto dopo aver visitato le sue case in cui la luce sembra che s’immerga nelle mura e nei letti che in quelle mura sono incassati. L’ho scoperto perché sul tetto della casa mi sono trovato davanti a file di fichi che ha disposto per l’essiccazione e sua moglie mi ha raccontato che è famoso qui per quella che alcuni considerano quasi un’ossessione. Givone infatti conosce ogni pianta dell’isola, sa quando andare a raccoglierne i frutti che con religiosità (la religiosità degli antichi, priva di dogmi e piena di divino) prepara per l’inverno in barattoli di marmellata o in confezioni di fichi secchi.
«Sono un raccoglitore», dice ridendo: «Ma anche questo ha il suo senso. Prendiamo Anassimandro. Rovelli lo indica come precursore in quel suo libro di successo intitolato “Che cos’è la scienza?”. Ma stanno così le cose? Leggiamo il famoso frammento: «Principio dei viventi è l’infinito... là dove i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo il tempo». Ora, cosa ci dice qui Anassimandro? Innanzitutto che il nostro transito in questa vita non è insensato. Veniamo dall’infinito e lì torniamo. Eppoi che per vivere dobbiamo pagare un debito. Il debito acquisito per quel tanto di essere sottratto agli altri. Ossia, la vita che abbiamo preso per noi e che con la morte restituiremo. Be’, mi dici tu: cosa c’entra con i fichi? Ecco, sai benissimo che dietro a questo frammento, come dietro a ogni riflessione greca c’è l’idea ciclica del tempo. Noi moderni siamo legati alla linea retta dal passato al futuro. Per gli antichi era diverso. Ma non c’è in loro soltanto l’idea di un ritorno costante delle stagioni. C’è qualcosa in più. Scendiamo ancora. Te lo mostro in un gesto».
Il sentiero ci spinge verso un imbuto ombroso dove il terreno è bagnato e Givone indica una vite solitaria. Allunga il braccio, stacca un grappolo e me lo passa. Mi racconta che una volta incontrò un tipo che era sbarcato da un gommone in quel golfo deserto perché soffriva di mal di mare. Senza nulla con sé, era salito lungo il sentiero assolato e adesso tremava, aveva sete, non si sentiva bene. Allora, lui e sua moglie lo accompagnarono a questa vite, lo spinsero a mangiare, finché quello riprese le forze per salire in cima fino al paese. «Sto divagando. Però vedi, quel che importa qui è il gesto. Questo gesto che adesso compio prendendo il grappolo. È un istante che si ripete nell’eternità, ma, a prescindere dalla sua ripetizione, esso stesso ora si fa eterno. Il tempo non consuma tutte le cose, non divora l’essere. Le cose sono nell’istante, per sempre. Quando Eraclito dice che panta rei, tutto scorre, be’ noi dobbiamo mettere l’accento su panta, su tutto. Tutto sempre è, anche se scorre, anche se è attraversato dalla morte e dallo smarrimento».
Il sentiero si fa ripido. Penso al proemio del poema di Parmenide, alle cavalle che trainano il carro e al rumore delle pietre che il cosiddetto “filosofo dell’essere” descrive riproducendone lo stridio per incantare il lettore, avvolgerlo di suoni, e spingerlo a vivere una dimensione nuova. «Parmenide racconta il percorso di un iniziato. Sono riflessioni in versi, in poesia. Non possiamo trattarle come le parole di un filosofo contemporaneo. Quei pensatori segnano l’inizio ma anche una fine, perché hanno a che fare con il mito. Ma il mito è racconto. E noi possiamo avvicinarci a loro con i nostri strumenti ermeneutici. Mi dicono: ma l’ermeneutica è dei nostri tempi, così ti contraddici. E io rispondo: ma cosa facevano invece questi poeti e pensatori antichi? Non usavano strumenti ermeneutici per riflettere sulle parole oracolari e sulle oscurità degli enigmi? E quel mondo di racconti e di miti con cui si confrontavano non è forse il mondo di racconti con cui ci confrontiamo noi leggendo i romanzi ottocenteschi?».
Quando arriviamo all’antico porto solitario nel mare che si frange spumoso, Givone tace e si siede. Io invece scendo verso i resti antichi mentre lui si raccomanda di fare attenzione. «Non vorrai mica farti il bagno? Ti può sembrar semplice tornare su dall’acqua ma non lo è». Lo rassicuro. Voglio semplicemente vedere quel che resta dell’antico approdo. Poi mi rendo conto che in fondo è inutile. Lo so da quando vengo qui. Lo so come tutti quelli che hanno fatto la grande scoperta, si sono ammalati di Grecia e sono stati rapiti. So che l’antichità non sta nelle pietre, nei resti, nei magnifici siti. L’antichità sta in tutto ciò che ancora è qui, in ogni istante. Nella forma del golfo stretto in cui il vento s’introduce assieme alla luce che taglia l’ombra buia. Nell’odore di iodio e di terra. In quella sensazione eterna che un poeta come Seferis scandì in un verso definitivo: “Ovunque io viaggi, la Grecia mi ferisce”.