Lotta Continua, la cronaca, l’eroina: compagni allo specchio in due documentari

Al Torino Film Festival l’epopea del gruppo di Adriano Sofri. E la tragica parabola di Carlo Rivolta, giornalista di Repubblica che indagava sulla droga

Novembre 1976. Un gruppo di femministe si impossessa del secondo Congresso nazionale di Lotta Continua e scrive a sorpresa la parola fine per il gruppo più vasto, influente, contraddittorio e in definitiva fecondo della sinistra extraparlamentare. Inattese, incontenibili, le donne non solo contestano a dirigenti e militanti scarsa sensibilità alla questione femminile, ma sciorinano senza riguardi abitudini e miserie intime dei compagni. Infischiandone serenamente anche dell'allora intoccabile "centralità operaia".

 

Noto ormai solo a specialisti e testimoni, quel gesto davvero rivoluzionario non è inciso come dovrebbe nella memoria collettiva, anche perché il secondo Congresso di LC si svolse praticamente a porte chiuse. Eppure ebbe un effetto dirompente e a suo modo provvidenziale, sostiene l'allora super-militante Paolo Liguori nell'incalzante e sfaccettato documentario di Tony Saccucci sul gruppo diretto da Adriano Sofri ("Lotta Continua", il 2 dicembre al 40mo Torino Film Festival prima di andare su Raiplay come docu-serie dal 4 dicembre e su Raitre in prima serata il 12 gennaio, produzione Publispei e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Documentari).

 

«Sofri capì perfettamente il conflitto tra uomini e donne che lacerava il gruppo - argomenta Liguori - ma colse anche al volo l'occasione. Bisognava trovare una soluzione onorevole per chiudere un'esperienza sempre più in crisi e "Il femminismo scioglie Lotta Continua" era un bel titolo. "Lotta Continua si spacca sul sostegno alla lotta armata" era senz'altro peggiore».

 

Purtroppo, spiega il regista, di quel congresso restano ben poche immagini. Chi c'era però ricorda bene il clima. «Le donne salirono sul palco insultando i maschi e accusandoli di non saper fare l'amore», dice Giampiero Mughini nel film di Saccucci. Il malumore del resto covava da tempo. Nel dicembre 1975 il servizio d'ordine di LC, guidato dal futuro scrittore Erri De Luca, aveva disperso in modo non proprio garbato il gruppo di sole donne che marciava dietro le insegne di Lotta Continua in coda a un'imponente manifestazione femminista, come ricorda nel docu Vicky Franzinetti (nel '73 anche protagonista del docu-fiction di Ettore Scola "Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam", boicottato da censura, distribuzioni, ministero e da Agnelli in persona). Quasi una provocazione, per un gruppo che appena un anno prima, con incredibile miopia, aveva bollato il referendum sul divorzio come «un diversivo destinato a distrarre gli operai dalla dimensione salariale della lotta». E la conferma che il gruppo di "duri" guidato da De Luca tendeva a costituirsi in corpo speciale al di sopra delle regole, anche se nel docu lo scrittore napoletano minimizza.

 

La questione della violenza naturalmente si affaccia di continuo nel film di Saccucci, storico prima che regista, che essendo nato nel '72 con quegli anni e quelle lotte non ha legami diretti. Non solo per l'assassinio del commissario Calabresi, per le molte vittime del decennio, o perché da una costola di LC nacque Prima Linea, ma per l'ambiguità che il gruppo mantenne al riguardo, come riconoscono tutti gli intervistati («Ci furono degenerazioni militariste, sarebbe ipocrita negarlo», sintetizza Gad Lerner). Anche se la prospettiva resta giustamente individuale più che giudiziaria, sentimentale ancor prima che politica («Eravamo dominati da arroganza e speranza - ricorda Franzinetti - tutto sembrava possibile»). Come già nel libro di Aldo Cazzullo da cui è partito Saccucci, "I ragazzi che volevano fare la rivoluzione".

 

Peccato semmai che le travolgenti immagini d'archivio («un'onda che sale dall'inconscio» dice il regista), oltre a illustrare l'epoca non vengano decostruite e interrogate come accadeva nel film di Mark Cousins "Marcia su Roma", scritto sempre da Saccucci. Ma forse è presto per

un'operazione simile, la storia contemporanea si scrive con altri mezzi. E la parabola di Lotta Continua, con tutti i suoi vicoli ciechi, resta una delle più aperte e interessanti di quegli anni. Come prova anche un altro documentario che si vedrà a Torino prima di uscire in sala a gennaio,

"La generazione perduta" di Marco Turco (prodotto da Mir Cinematografica e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Cinema e AAMOD), dedicato a una figura così emblematica che in un paese meno spaventato dalla memoria avrebbe ispirato un film vero e proprio.

Parliamo di Carlo Rivolta, valente giornalista romano, a Repubblica fin dalla fondazione, che nel 1982 muore a soli 32 anni cadendo da una finestra in crisi di astinenza. Un destino paradossale per chi con le sue inchieste aveva fatto luce come nessun altro sul mercato nascente dell'eroina, fino a precipitarvi in prima persona. Al culmine di un percorso che riassume con atroce limpidezza tutti i nodi e gli appuntamenti fatali dell'epoca. Il lavoro come missione, l'assenza di confini tra vita personale e professionale, il mito della libertà assoluta, la ricerca di un Padre (che per qualche anno Rivolta trova in Scalfari), l'illusione di poter restare integri e indipendenti in un mondo sempre più lacerato e violento. Fino a restare stritolato, durante il rapimento Moro, in una morsa micidiale.

 

Inviso al Pci per aver criticato il servizio d'ordine dei sindacati durante il famoso comizio di Luciano Lama all'Università di Roma nel 1977, minacciato da Autonomia Operaia per aver denunciato le loro violenze, poi dalle Brigate Rosse quando con pochissimi altri (Mario Scialoja, Enrico Deaglio) dà notizia della rottura fra Morucci e Faranda e il nucleo storico delle Br, ma soprattutto esautorato da Scalfari per la sua posizione filo-trattative durante il caso Moro, Rivolta scende poco a poco tutti i gradini della tossicomania.

 

Dai primi "tiri" fatti per capire meglio (Scalfari gli diede anche i soldi per acquistare dosi di eroina in diversi quartieri di Roma e analizzarne la composizione), all'illusione di governare la droga, fino a perdere il controllo e andarsene da Repubblica per approdare al quotidiano Lotta Continua. Dove, come dice nel documentario l'allora direttore Enrico Deaglio, «non avevamo soldi da offrire ma una comunità». Comunità in cui magari Rivolta non era l'unico a "bucarsi". Ma esisteva anche chi era capace di pubblicare una vera e propria "guida" agli spacciatori di Milano, con foto e indirizzi, pagando con la vita quello sgarro, come Fausto e Iaio, al secolo Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, i due giovanissimi attivisti del Leoncavallo autori di quel "Dossier eroina" che nel film compare fugacemente nelle mani di Deaglio. Uccisi (a due giorni dal rapimento Moro) da ignoti rimasti tali. «Non è stata colpa dell'eroina. Ero già morto», scrive Rivolta in una pagina sconvolgente dei diari, letti nel film per la prima volta. Ma si sbagliava. Forse è ancora vivo.

 

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