Come si fa a raccontare la voce di una donna che non hai mai conosciuto, ma che frequenti da sempre? Come si evocano i fantasmi? I fantasmi dei luoghi e delle persone lontane? Forse immaginandoli, chiamandoli, perdendoti». Sono pensieri e parole di Isabella Ragonese, attrice molto amata e con un lungo elenco di registi per i quali ha lavorato: Paolo Virzì, Mario Martone, Marco Tullio Giordana, Pupi Avati, Emanuele Crialese, Roberto Andò, Daniele Luchetti, Sergio Rubini, Valerio Mieli... Stavolta però la regista è lei, anche se forse sarebbe più giusto chiamarla “direttrice d’orchestra” per la sua capacità di mettere insieme diversi “strumenti” che intonano un’unica melodia, pronta a risuonare in maniera forte e chiara a ogni suo cenno. Che cosa vuole raccontarci? L’anima folk di Rosa Balistreri (Licata 21/03/1927 – Palermo 20/09/1990), cantastorie dalla voce inconfondibile, donna battagliera che ha vissuto una vita rocambolesca, femminista inconsapevole e sempre dalla parte dei più deboli. Isabella Ragonese si mette in cammino per seguire le sue tracce e costruisce così un racconto personalissimo, svincolato dal classico ritratto documentaristico, ma che ci restituisce Rosa nelle parole e nei volti delle donne che incontriamo fra le strade di Palermo. Il risultato di questa ricerca è “Rosa. Il canto delle sirene”, una produzione Sky Arte, realizzata da Quoiat Films e presentata, fuori concorso, al Torino Film Festival il 27 novembre, che andrà poi in onda su Sky Arte il 4 dicembre.
Isabella, possiamo definirlo il suo esordio alla regia? Ci racconti come è nato il progetto.
«In realtà è un progetto talmente particolare che non sono neanche certa di poter parlare di regia. Tutto è partito dall’idea di voler raccontare Palermo, la città in cui sono nata, e dunque ho pensato alla storia di Rosa Balistreri, che è stata per molti un punto di riferimento. E accompagnò anche Dario Fo sui palchi d’Italia. Ma come potevo? Non volevo fare il classico documentario che raccontasse chi era e cosa ha fatto Rosa, quelle sono informazioni che si possono ricavare consultando Wikipedia. Io volevo trovare un modo tutto mio per raccontarla, per esempio cercando le tracce che ha lasciato. Cosa resta degli artisti del passato? È possibile raccontarli attraverso altre persone? E così ho fatto una sorta di “casting emotivo”, in cui attraverso amici di amici ho coinvolto non persone che hanno conosciuto Rosa, ma persone che hanno qualcosa della sua anima. È stato un modo per parlare del folk, della canzone popolare, che non è di chi la scrive, ma appartiene a tutti, come quelle storie che ti vengono raccontate e ogni volta che le racconti a tua volta cambi una parola, un particolare, e alla fine diventano di tutti».
Il modo in cui ha scelto di raccontare la storia di Rosa ricorda molto il lavoro che ogni attore fa sul personaggio. È come se avesse reso pubblico il backstage dandogli però una forma, anche poetica…
«Infatti questo lavoro ha molto a che fare con me e con il modo in cui io costruisco i miei personaggi: le letture, gli appunti, le improvvisazioni, le associazioni mentali stavolta sono esposte, condivise. Il filmato procede su due binari: da una parte ci sono le prove in sala, dall’altra ci sono i testi che sono di fantasia, ma che raccontano qualcosa di Rosa».
E poi ci sono diverse persone coinvolte, ciascuna con la propria storia. In ognuno di loro c’è qualcosa di Rosa. Dana, per esempio, che ha deciso di cambiare sesso, dice più o meno questo: a un certo punto bisogna scegliere fra l’essere e il fare. Si è trovata anche lei di fronte a questo bivio?
«La storia di Rosa ci dice anche questo: siamo di fronte a una donna che ha avuto la forza di partire — ha lasciato la Sicilia per trasferirsi per un periodo in Toscana — un miracolo che ha compiuto da sola e nella Sicilia di allora non era facile. In questo mi riconosco molto: andare avanti da sola, con le proprie forze, e lasciare l’isola per cercare un posto nel mondo. E anche Dana voleva la stessa cosa, cioè uscire dalla propria gabbia».
E affermare la propria identità che è sempre in movimento, come dice anche Massimo Milani, fondatore dell’Arcigay di Palermo, perché, aggiunge, non si tratta di una questione minoritaria, ma riguarda tutti noi.
«Nelle canzoni di Rosa il genere non è importante e la stessa cosa vale per Massimo, che odia categorizzare. La sua e le altre storie ci parlano di Rosa a modo loro, da Verdiana, sollevatrice di pesi, a Gaia che dalla Toscana si è trasferita in Sicilia per ricostruire le barche. Sono tutte delle sopravvissute, come Rosa».
E poi c’è il grande tema della violenza sulle donne. Rosa andò in carcere perché tentò di ammazzare suo marito, violento come suo padre. E molte delle donne che parlano nel filmato hanno vissuto storie simili.
«Questo è un tema che mi sta molto a cuore. Basta aprire il giornale, ogni giorno c’è una storia di violenza. E purtroppo il numero di donne che subiscono maltrattamenti è molto più alto rispetto a quello che conosciamo. Nel nostro caso le storie, come quella di Enza e Concetta del Laboratorio Zen Insieme, sono venute fuori in maniera spontanea e con una tale forza che siamo rimasti tutti – io e la troupe – senza parole».
Dalle immagini girate nel Laboratorio Zen Insieme si intravedono anche delle bambole di pezza. E spunta una testa dai capelli rosa: è Letizia Battaglia.
«Sì, lei è l’altra figura per me fondamentale. A differenza di Rosa, Letizia l’ho conosciuta. E ovviamente interpretarla in “Solo per passione” di Robero Andò è stato meraviglioso, un regalo grandissimo».
È stato difficile mettere in ordine tutto il materiale raccolto per “Rosa”?
«In fase di montaggio non è stato semplice. Però il percorso è stato chiaro, anche se forse un po’ disordinato. Ho iniziato a lavorare a questo progetto durante la pandemia. E in quel periodo ho scritto una specie di “Diario di Rosa” in cui appuntavo frasi, foto, soprattutto registravo pensieri, ho lavorato molto sul sonoro. E poi ho iniziato a girare. A Palermo sono andata nei luoghi che conoscevo; la palestra in cui sono stata, per esempio, era la stessa in cui facevo le mie prime prove teatrali...».
Ecco, a proposito di teatro, sta riprendendo la tournée dello spettacolo “Da lontano – Chiusa sul rimpianto”, scritto da Lucia Calamaro (fra le prossime date: Napoli, al Teatro Nuovo il 4 e il 5 marzo, e Roma, al Teatro India dal 7 al 12 marzo). Scommetto che non vede l’ora…
«Sì, io amo il teatro. E amo molto la scrittura di Lucia Calamaro, trovo che sia una delle più interessanti drammaturghe che abbiamo in Italia. “Da lontano” è una storia intima che mette in dialogo una figlia adulta con una madre che ha la stessa sua età. Uno spettacolo che ogni volta mi emoziona e che Lucia ha scritto su misura per me».
Insomma, nonostante i film di successo, il teatro resta il suo grande amore…
«Recitare fa parte di me, ho iniziato a 16 anni. Vengo dal teatro e mi piace tornarci. Il cinema e il teatro si alimentano a vicenda, perciò cerco sempre di trovare il giusto equilibrio».