Opposizione
Enrico Letta l’indeciso lascia nelle sabbie mobili il Pd. E rischia di ridurlo a una “margheritina”
Il segretario non ha ancora deciso se restare nei dem o tornare in Francia. I suoi gli consigliano di sostenere Anna Ascani alla segreteria. Nel frattempo però Conte e Calenda guadagnano consensi e si rischiano nuove scissioni
L’eterno indeciso, perfetto segretario del partito che non decide. Ma questa volta una decisione l’ha presa: nessun addio alla politica né ritorno in Francia nella sua cara Sciences-Po, l’Institut d’Etudes politiques de Paris. Enrico Letta non ha intenzione di replicare la scena del 2014 con Matteo Renzi che gli “toglie” la campanella di Palazzo Chigi e la sua conseguente fuga silenziosa Oltralpe: ma vuole restare saldo nei ruoli di vertice del Partito democratico e medita di sostenere una sua candidatura alla corsa alla segreteria del forse futuro Pd o della sua fase liquidatoria. Il nome sul tavolo è quello del sindaco di Firenze, Dario Nardella, ma la carta a sorpresa si chiama Anna Ascani. Carta che sulla scrivania di Letta ha messo il suo braccio destro Marco Meloni. Peccato però questa sua decisione di non prendere una chiara via per i dem rischia di ingessare ancora di più non solo il partito ma anche l’intera opposizione, in vista di un congresso che si terrà tra cinque mesi e che lo stesso Letta sta rendendo un rompicapo con cavilli burocratici e passaggi vari. Cinque mesi in questi tempi veloci sono un’era geologica che potrebbe far davvero chiudere via del Nazareno o ridurla a un condominio per pochi intimi, mentre l’elettorato va di corsa verso le altri ali dell’opposizione, Movimento 5 stelle e Terzo Polo (Calenda più che Renzi).
Letta, nipote di Gianni Letta il gran consigliere di Berlusconi e del berlusconismo da anni, come lo zio ha provato ad agire con modi felpati e occhi di tigre, si fa per dire. Ma così non ne è ha azzeccata una, prima del voto e dopo. Letta è stato lo specchio delle indecisioni del Partito democratico negli ultimi dieci anni, che ha imbarcato tutti e promosso linee di governo che prevedevano tutto e il contrario di tutto. Ha candidato al Nord Carlo Cottarelli, volto del Fondo monteranno internazionale che fino a qualche mese fa quasi auspicava norme in Italia per andare in pensione a 70 anni come «in Giappone», lui che ci è andato un bel po’ prima di questa età, ma anche Aboubakar Soumahoro, volto delle proteste dei braccianti, immigrati e non, sfruttati senza legge nelle campagne italiane dalla Val Padana ai campi della Puglia. Uno che parla una lingua diciamo abbastanza differente da quella di Cottarelli. Letta ha candidato poi due ex segretarie nazionali di sindacati che non hanno tenuto linee uguali di fronte alle grandi vertenze del Paese, Susanna Camusso e Annamaria Furlan, che tra il 2014 e il 2015 non riuscivano a fare uno sciopero insieme. Per non parlare del record di paracadutati da altre regioni e da altre storie politiche che ha registrato il Pd nell’ultimo voto.
Tanto per citare alcuni dei tanti campanelli d’allarme sullo stato confusionale dei dem e in fondo anche del segretario. Ma preso atto della sconfitta di una linea che evidentemente il Paese non ha capito, anche perché era difficile da comprendere, il giorno dopo il voto Letta è rimasto immobile e di fatto imprigionato dalla perdita di ruolo e potere: come leggere altrimenti la scelta davvero singolare di riproporre come capigruppo al Senato e alla Camera Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, che gli italiani hanno seguito negli ultimi anni in maggioranza con il governo Conte II e poi visto difendere il governo di Mario Draghi, la cui agenda (che non molti conoscono) era stata issata a bandiera della campagna elettorale dei dem.
Indecisioni, debolezze, che da un lato stanno mettendo a dura prova la sopravvivenza del Pd non tanto nel Parlamento ma nel Paese; e stanno facendo anche un regalo insperato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla prese con una maggioranza isterica e senza una linea politica chiara su cose da fare, se non appunto riempire i giornali e tg con provvedimenti su presunta legalità, contanti, sicurezza, immigrazione. Temi ideali per la propaganda, ma non certo per risolvere i problemi drammatici dell’economia del Paese alla vigilia di un inverno che si annuncia durissimo in termini di costi e spese per famiglie e aziende.
Ecco, di fronte a questa scenario, l’assenza di un segretario che parli con Conte e Calenda di fatto rende l’intera opposizione parlamentare ininfluente per il governo Meloni. Ma nessuno tra i dem in questo momento alza più di tanto la voce, se non nel chiuso delle stanze del Nazareno. Tutti sono concentrati a capire cosa fare da qui al fantomatico congresso che potrebbe diventare però, senza contenuti e senza leader compresi dal Paese, solo uno rito stantio questa volta con il rischio che sia l’ultimo prima della liquidazione del partito. Base riformista dell’ex ministro Lorenzo Guerini punta sulla candidatura a nuovo segretario del governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che non ha intenzione di fare accordi con il Movimento 5 stelle. L’ex ministro Andrea Orlando, con i suggerimenti dell’eterno Goffredo Bettini, cerca un candidato (anche lui stesso, ma si vedrà) per portare avanti un disegno che preveda una intesa forte con Conte, anche in caso di sconfitta alla corsa alla segreteria e vittoria di Bonaccini: non escludendo scissioni, per essere chiari. Poi tra l’area degli ex ds ci sono i giovani guidati da Giuseppe Provenzano, ormai in rotta con Orlando, che chiedono una costituente chiara per stabilire una linea che sciolga alcuni nodi irrisolti da dieci anni.
E poi ci sono loro, in gran parte moderati arrivati dalla Margherita, che Letta ha candidato a man bassa in posizioni utili per essere eletti e che gli consentono di avere di fatto un ruolo in Parlamento e nel partito: da Silvia Roggiani a Mauro Berruto, da Antonio Nicita a Valeria Valente e Furlan. Una truppa, composta anche da Dario Franceschini e Francesco Boccia, che in queste ore cerca di fare la mossa del cavallo. Candidare un volto senza molte pretese di vincere ma consentendo loro di trattare e restare in palla. Di trattare ad esempio con Bonaccini, o comunque di eleggere un buon numero di componenti della segreteria. Il nome sul tavolo di Letta è quello di Nardella, ma la carta vera dicono sia quella di Anna Ascani: vice presidente della Camera, nel 2007 ha sostenuto la corsa alla segreteria di Letta, nel 2010 ha appoggiato Pier Luigi Bersani, poi è stata folgorata sulla via di Matteo Renzi e adesso è considerata una delle predilette di Letta. Insomma, perfetta per chi non vuole prendere mai decisioni chiare.
Il regista dell’operazione che vede Letta restare saldamente dentro i dem è Marco Meloni, che nelle scorse settimane ha più volte ribadito al segretario di non fare l’errore del 2014, quando anche lì non prese una posizione chiara contro il renzismo crescente e nell’arco di pochi mesi si trovò fuori dal governo e con Matteo nuovo presidente del Consiglio. «Non fare lo stesso errore», gli suggeriscono in tanti, non solo Meloni. Letta così oscilla tra la voglia comunque che ha di mollare la segreteria, che molti hanno sentito palpabile nel corso dell’ultima direzione, e invece la voglia di provare una rivincita restando con ruoli di primo piano nel partito e ottimi rapporti con il nuovo possibile segretario. L’importante è non rispondere alla vera domanda di fondo: dove si vuole portare il Partito democratico? Verso quale direzione?
Di sicuro la strada non può essere l’autosufficienza, ancora assurdamente evocata nell’ultima direzione: il risultato elettorale è stato chiaro e Conte e Calenda stanno stringendo sempre più il cerchio attorno alle contraddizioni dei dem. Non a caso se l’ala Orlando, diciamo, pensa anche a una cosa nuova con Conte e il Movimento 5 stelle, un pezzo del partito sta aprendo ponti di dialogo con Calenda ed è pronto a lasciare il partito: tra questi anche insospettabili ex ds che sono stati fatti fuori dal Parlamento dalle scelte di Letta. Ma la vera spina nel fianco del Pd immobile di Letta, e senza linea, si chiama Giuseppe Conte. Al di là delle strategia di Bettini o dei buoni uffici di Massimo D’Alema, che dopo aver provato a vendere armi alla Colombia è tornato guarda caso in tv a parlare di politica fiutando gli enormi spazi lasciati liberi dal segretario dem, Conte ha le idee chiare. Il leader del Movimento 5 stelle vuole diventare lui il riferimento della sinistra sociale, con pochi argomenti chiave che diventano dirompenti con il governo Meloni: difesa del reddito di cittadinanza, lotta al caro bollette, contratti di lavoro stabili e salario minimo, no all’invio di ulteriori armi all’Ucraina.
Pochi slogan, rilanciati ogni giorno, mentre punta anche a riprendere spazi e consensi al Nord parlando alle piccole imprese e al mondo degli artigiani e dei commercianti, con un tour che inizierà a breve tra Veneto, Lombardia e Piemonte. Conte vuole essere l’unico volto di vera opposizione al governo Meloni, e già nel dibattito sulla fiducia ci è riuscito, attaccando la presidente del Consiglio sul Pnrr che lei e Fratelli d’Italia non hanno mai votato, né in Europa né a Roma. Il Pd si è presentato con il volto debole della Serracchiani che ha pensato bene di criticare la leader di Fdi per stare un passo indietro agli uomini: lei che è la prima presidente del Consiglio donna nella storia del Paese.
Il problema del Pd oggi si chiama indecisione, perfettamente incarnata dal segretario in carica e mezzo dimissionario, ma senza dimissioni ufficiali, Enrico Letta.