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Cultura
novembre, 2022

Azar Nafisi: «Le dittature si basano sulle bugie, gli scrittori cercano la verità. Per questo sono pericolosi»

Il potere della femminilità, che terrorizza il regime. E quello della letteratura: arma di resistenza e di democrazia. Parla l’autrice di “Leggere Lolita a Teheran”

“Leggere Lolita a Teheran” è un libro nel cuore di molti lettori. Nel 2003, quando uscì, fu un caso internazionale: per oltre cento settimane nella lista dei bestseller del New York Times, tradotto in 32 lingue, un premio dopo l’altro. Nel 2009 il Times lo consacrò come uno dei libri più importanti del decennio.

Perché “Leggere Lolita a Teheran”, pubblicato in italiano da Adelphi, non era solo il racconto di una docente che, costretta a lasciare l’insegnamento universitario, proseguiva le sue lezioni di letteratura clandestinamente, a casa sua, con le sue studentesse migliori. Ma svelava al mondo la libertà degli iraniani calpestata. Provocando l’indignazione generale: perché certi autori, che avevano emozionato milioni di lettori occidentali – “Orgoglio e pregiudizio”, “Madame Bovary”, “Lolita”, “Il grande Gatsby”…, - in Iran erano severamente vietati?

La protagonista, Azar Nafisi stessa, invitava tutti a immaginare quella libertà di leggere improvvisamente confiscata. E a non dimenticare quelle donne, che tutti i giovedì, per due anni, «con il sole e con la pioggia sono venute a casa mia, togliendosi il velo e la veste scura per diventare di colpo a colori». Levandosi di dosso, con quel gesto, anche di più: «Ognuna di loro acquisiva una forma, un profilo, diventava il suo proprio, inimitabile sé. Quel piccolo mondo, quel soggiorno con la finestra che incorniciava i miei amati monti Elburz, diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi».

Della Repubblica islamica Nafisi, figlia di Ahmad Nafisi, ex sindaco di Teheran, e di Nezhat Nafisi, prima donna a essere eletta al parlamento, è sempre stata oppositrice. Professoressa di Letteratura inglese all’università Allameh Tabatabai di Teheran (dopo studi tra l’Inghilterra e l’università di Oklahoma), fu espulsa, tra il 1981 e il 1987, per aver rifiutato di indossare il velo. Qualche anno dopo, impossibilita a vivere in un ambiente accademico più preoccupato del potenziale sovversivo di una ciocca di capelli che sbucava dall’hijab che della qualità degli insegnamenti, «di espungere la parola vino da un racconto di Hemingway o di cassare dai programmi di studio Emily Bronte», lasciò l’incarico. E di lì a poco anche il Paese: si trasferì con la famiglia a Washington, dove ha insegnato Letteratura inglese alla Paul H. Nitze School of Advanced International Studied della John Hopkins University e diretto il Dialogue Project & Cultural Conversations.

Da lì ha continuato a far sentire la sua voce critica contro gli ayatollah: con libri come “Le cose che non ho detto”, “La Repubblica dell’immaginazione”, “Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio”. Col suo ultimo saggio, “Read Dangerously”, è tornata a riflettere sul potere sovversivo della letteratura: attraverso lettere inviate al padre e dedicate alla scrittura di Toni Morrison, James Baldwin, Margaret Atwood, Salman Rushdie. Arma di resistenza ai tempi bui, come quelli che l’Iran sta vivendo. E che Azar Nafisi segue con trepidazione.

«Provo emozioni contrastanti, dentro di me», dice la scrittrice a L’Espresso: «Da una parte sono arrabbiata per il modo in cui il regime sta uccidendo così tanti giovani che chiedono soltanto libertà, dall’altra nutro grande speranza verso questo tempo: sono convinta che queste rivolte siano davvero diverse da quelle passate. Sono piena di fiducia perché penso che siamo arrivati a un punto di svolta: a prescindere da cosa accadrà, queste proteste cambieranno la faccia della società iraniana, in meglio».

Studenti in rivolta e ragazze in prima linea. Basiji armati fino ai denti, pronti a colpire con coltelli e pistole. E quello slogan che non accenna ad attenuarsi: “Donna vita libertà”. Le sue indomabili ragazze, che sfidavano la sorveglianza di fratelli e di mariti per leggere insieme libri proibiti, stanno idealmente guidando le manifestazioni: «In questi 43 anni in cui la Repubblica islamica è stata al potere ci sono state moltissime azioni di protesta. Una delle più importanti, quasi un’anticipazione di ciò che accade ora, è avvenuta all’inizio della Rivoluzione islamica, l’8 marzo 1979, quando milioni e milioni di iraniane sono scese in strada chiedendo libertà. Lo slogan era “la libertà non è dell’Est o dell’Ovest, la libertà è globale”. Sin dall’inizio, il regime ha avuto nel suo obiettivo donne e minoranze. Questi gruppi, in particolare le donne, hanno fatto sentire la loro voce di protesta. Ma una delle differenze tra allora e oggi è che prima la gente riponeva speranza nel movimento delle riforme. Se ricordate la maggior parte delle elezioni presidenziali proponeva candidati riformisti, a partire da Khatami. E tutte le volte che questi candidati riformisti salivano al potere, ingiustizie e corruzione peggioravano. Ma questa volta nessuno ha come obiettivo le riforme: le persone sanno chiaramente che questo regime non vuole concederne. E a questo punto cercheranno di fermarlo più velocemente possibile».

«Abbiamo mandato le nostre figlie, il nostro bene più prezioso, a lottare per la libertà di tutti», ha scritto Kader Abdolah su L’Espresso. «Gli iraniani, e le donne iraniane in particolare, hanno preso coscienza di come possono usare il potere», aggiunge Nafisi: «Sembra che siano solamente vittime ma non lo sono. Loro hanno capito quanto sono potenti perché solamente essendo sé stesse sono diventate pericolose per il regime. Non è un gesto politico, il loro, è la consapevolezza di una condizione esistenziale. Ricordo quando sono stata espulsa dall’università per non aver voluto indossare il velo. Ho sentito, come donna, di dover proteggere la mia individualità e il mio senso di dignità: non potevo permettere allo Stato di definire chi io dovessi essere. E questo è ciò che provano milioni di donne iraniane oggi. Hanno scoperto quanto potenti possano essere andando nelle strade di Teheran senza il velo. Significa che qualcosa di fondamentale è cambiato: il regime è spaventato. Usano tanta violenza perché non hanno più altre armi. Il solo modo di dialogare è attraverso le pistole. Il regime ha paura e il popolo ha potere. Questo influenzerà non solo l’Iran e non solo il regime, ma tutto il mondo». Perché? «Gli iraniani, per 43 anni, hanno provato cosa vuol dire vivere senza democrazia. Sono stati arrestati, imprigionati, torturati e uccisi senza alcuna colpa, solo per la democrazia», prosegue la scrittrice: «E quello che sta accadendo ora è in nome della democrazia, ragione per la quale il mondo dovrebbe supportare l’Iran, la democrazia di una parte di mondo dovrebbe aiutare la democrazia in altre parti del mondo. La mia speranza per l’Iran è che quanto sta accadendo non porti solo una nuova vita per gli iraniani, ma che diventi un modello. Allo stesso modo in cui è accaduto in Sud Africa o in Sud America, dove movimenti per i diritti civili sono diventati modelli per il resto del mondo. E questa rivoluzione contro la teocrazia è la prima guidata da donne: un fatto storico».

La premio Nobel per la pace Shirin Ebadi ha chiesto, parlando con L’Espresso, sanzioni sempre più dure contro il regime e i pasdaran da parte dell’Occidente. Le sembra una strada concreta?

«Prima di tutto, penso che la condanna che il mondo ha fatto dovrebbe andare oltre le parole. Per esempio, abbiamo bisogno che l’Iran sia espulso dalle istituzioni delle Nazioni Unite che hanno a che fare con le donne e con diritti umani. Come può questa gente sedere in queste sedi e rappresentare l’Iran, mentre le donne sono barbaramente uccise: non ha senso. Altre cose che i governi possono fare è congelare gli asset degli ufficiali di governo i cui figli e parenti vivono in lusso assoluto in diversi Paesi occidentali. È veramente vergognoso che mentre gli iraniani a stento hanno da mangiare ci siano persone che vivono da miliardari in Europa e nel Nord America. Penso che i loro patrimoni dovrebbero essere congelati. E che quelle istituzioni che hanno a che fare con il governo, come le Guardie della rivoluzione, la televisione e la radio di Stato, dovrebbero essere sanzionate. Dovrebbe essere fermato il riciclaggio di denaro che si sta verificando, specialmente ora che molti del regime hanno paura e stanno mandando i loro soldi fuori dal Paese. Fino a questo momento l’Occidente è stato molto, molto cauto, in attesa di vedere cosa accadrà. A prescindere da come andrà a finire, dovrebbe fare la cosa giusta».

Nella stanza tutta per loro, nella Teheran del 1995, fare la cosa giusta era aiutare giovani donne a sopravvivere in un contesto di censura. «Non cercavamo formule o risposte facili; speravamo invece di trovare un collegamento tra gli spazi aperti dei romanzi e quelli chiusi in cui eravamo confinate», scrive nel suo romanzo più famoso Nafisi, che non ha mai smesso di evocare la potenza della letteratura: quel “mondo portatile” fatto di autori che rispondono alla nostra fame di vita, desiderio, libertà. E che atterrisce i fondamentalisti.

«Sono spaventati dalla letteratura, perché arte e letteratura si basano sulla verità», prosegue Nafisi: «Quello che l’autore di un romanzo fa è portare alla luce la verità del tema di cui sta scrivendo. Lo fa attraverso una struttura democratica, perché se sei un grande scrittore devi dare voce a tutti i personaggi, all’interno di un libro. Vai sotto la pelle di ogni singola figura per empatizzare e scrivere un buon racconto. Anche i più cattivi hanno diritto alla loro voce. Perciò i romanzi diventano pericolosi, come del resto accade col giornalismo. Il giornalismo scava nei fatti, per raggiungere la verità. La fiction vuole scoprire la verità attraverso l’immaginazione. Ed è per questo che entrambi sono considerati pericolosi per i regimi: da quando il regime islamico è salito al potere ha iniziato il suo attacco alla letteratura, all’arte, all’immaginazione. Khomeini ha detto: “Le università sono più pericolose delle bombe per noi”. Umanità e creatività li spaventano. Non la scienza o l’ingegneria: sono sempre stati terrorizzati dagli artisti, dagli scrittori, dai filosofi. Hanno ucciso sin dal primo giorno e imprigionato e arrestato tantissimi scrittori. Anche adesso, mentre noi parliamo, ci sono artisti e scrittori che vengono arrestati e imprigionati nelle carceri iraniane. Come ogni regime totalitario, anche questo sin dall’inizio ha attaccato soprattutto tre gruppi di persone: donne, minoranze e oppositori. E ora vediamo che in particolare i più giovani sono scesi in strada, chiedendo libertà di riunione, libertà di scelta, non permettendo al regime di silenziare più la loro voce».

Allo scrittore Salman Rushdie, vittima di una indelebile fatwa, e recentemente aggredito a New York, ha dedicato un capitolo di “Read Dangerously”. «Non ho idea di come stia, ma non dovremmo dimenticare cosa ha subito. Nel libro mi sono chiesta cosa c’è in un uomo, la cui sola arma sono le sue parole, che lo rende così pericoloso al punto che alcuni dei più potenti sulla terra vorrebbero distruggerlo. Perché Rushdie parla con le sue parole e non ha altre armi. Eppure il regime è così terrorizzato che il solo obiettivo che ha è ucciderlo. Questo non ha a che fare con la religione, ma col potere politico. I regimi totalitari sanno che scrittori, artisti e giornalisti sono altamente pericolosi per loro. Perché si basano sulle bugie. Più grande è la bugia più si sentono a casa. Sono terrorizzati dalle verità degli scrittori». La letteratura insegue la verità. Ma mentre il sangue scorre per le strade si può ancora evocare il diritto all’immaginazione? «Sì, non penso ci sia contraddizione. Quando ero in Iran i miei studenti fotocopiavano centinaia e centinaia di romanzi per connettersi al mondo. Ciò che è successo dopo è che gli iraniani sono stati tagliati fuori dal mondo. Noi leggevamo clandestinamente libri proibiti, ballavamo danze vietate, cantavamo canzoni e ascoltavamo musica messa al bando, guardavamo arte proibita. Quella parte della nostra vita era ciò che ci dava speranza e ci faceva sentire connessi col mondo. Da bambina a casa si parlava di cinema francese e italiano. Poi, è arrivata la Rivoluzione, e Fellini, Antonioni, Rossellini, visti clandestinamente, erano i nostri spazi aperti. Gli iraniani faranno di tutto per ritrovarli».

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