Una coppia di fotomodelli e influencer fra tic e tabù dell’alta moda. La nuova potente prova di Ruben Östlund capace di alleare il senso del comico e quello del sacro

Triangle of Sadness, un grande film capace di far parlare i corpi

Diciamolo subito senza far tanto gli schizzinosi. Lo svedese “Triangle of Sadness” è uno degli oggetti più potenti apparsi in questi anni nella categoria (oggi trascurata) dei film “grand public”. Non solo per ciò che mostra e racconta, ma proprio per come lo fa. Facile liquidarlo come satira della lotta di classe e di genere additando gli eccessi: troppo lungo il naufragio, troppo vomito che schizza da bocche e toilette, troppo meschini i tanti personaggi. La verità è che Ruben Östlund, due volte palma d’oro a Cannes (la prima la vinse con “The Square”, altro film geniale e imperfetto), ha un dono. Sa far parlare i corpi. Ovvero sa incarnare con rara abilità i conflitti in cui siamo immersi (tanto da non farci nemmeno più caso) costruendo personaggi capaci di far esplodere le contraddizioni senza perdere un grammo di leggerezza e di simpatia. Sì, simpatia. I personaggi di Östlund possono essere tremendi ma capiamo sempre benissimo il loro punto di vista e i loro sentimenti. Altro che cinismo insomma.

Il povero Carl, fotomodello scultoreo fidanzato a una collega e influencer anche più bella (e pagata) di lui, la coriacea Yaya, fa tenerezza fin dal prologo, esilarante, che infilza tic e tabù dell’alta moda (e dei rapporti fra i sessi) mettendo a fuoco il potere esorbitante della bellezza e insieme il suo prezzo.

Ma resta al centro di questa affollata sarabanda anche quando sembriamo perderlo di vista, durante la crociera di ultraricchi, per tornare in primo piano dopo il naufragio, che ribalta in modo insieme atroce e beffardo i rapporti di forza e di classe. Con una crudeltà che può mettere a disagio, certamente (si pensa a “Parasite” o alla seconda parte di “The Lobster”). Anche se il senso formidabile delle caratterizzazioni e le molte invenzioni di regia (gusto delle inquadrature e del fuori campo, uso della musica, etc.) permettono a Östlund di spingersi sempre più in là del previsto. Mettendo a fuoco con allegra spietatezza ciò che non cambia, anche quando il Caso redistribuisce le parti e una umile cameriera filippina diventa il capo dei sopravvissuti perché è l’unica che sa come sopravvivere su quell’isola. I detrattori parlano di mancanza di finezza. Ma è pura ipocrisia. A disturbarli davvero è l’alleanza, così insolita, fra il senso del comico e quello del sacro.

“Triangle of Sadness”
di Ruben Östlund / Svezia-Germania / Francia-Gb,
149’

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