Attualità
1 dicembre, 2022

L’Ilva fa gola ai privati. Ma solo se è lo Stato a pagare debiti e contenziosi per risanarla

La rottura tra l’azionista privato, ArcelorMittal, e quello pubblico è vicina. Sull’acciaieria di Taranto si concentra l’interesse dei gruppi siderurgici Arvedi e Marcegaglia. Uno dei due potrebbe versare 400 milioni per far ripartire anche Novi Ligure e Genova

I due si sono sposati troppo in fretta. Senza neppure conoscersi bene. Del resto si è trattato di un matrimonio riparatore: c’era da salvare l’Ilva, che alla fine del 2020 era sull’orlo della chiusura.

 

Ci hanno provato l’azionista privato, ArcelorMittal, e quello pubblico, lo Stato attraverso Invitalia, ad andare d’accordo. Ma neppure il tentativo dell’attuale presidente di Acciaierie d'Italia Holding, Franco Bernabè, di far marciare entrambi verso il risanamento finanziario e ambientale ha sortito l’effetto sperato. Insomma, la resa dei conti è vicina.

 

Alla finestra attendono due pretendenti, due gruppi siderurgici del Nord: la cremonese Arvedi, che è in grande crescita, e la mantovana Marcegaglia, storico cliente Ilva. Entrambe stanno analizzando il dossier molto da vicino ed è probabile stiano dando qualche consiglio al ministro dello Sviluppo economico, Adolfo Urso.

Economia e politica
Ilva, Ita, Montepaschi: la ricetta di Giorgia Meloni per i salvataggi di Stato. A spese nostre
25/8/2022

Una volta risanata dai debiti e dagli eventuali contenziosi con i tanti, troppi, fornitori in attesa di essere pagati, uno dei due potrebbe decidere di versare una quota – circa 400 milioni di euro — per far ripartire non solo l’acciaieria tarantina ma anche, e soprattutto, gli impianti di laminazione di Novi Ligure e Genova: due fiori all’occhiello al servizio delle principali imprese siderurgiche del Paese, che da parecchio tempo vengono mortificate dalle logiche strategiche di Acciaierie d’Italia, con un costante ricorso alla cassa integrazione, mentre i competitor fanno affari d’oro.

Per capire il motivo di tanta diffidenza tra lo Stato e ArcelorMittal bisogna riavvolgere il nastro all’autunno 2020, quando in fretta e furia il governo Conte compra l’Ilva a scatola chiusa, impegnandosi a pagare un miliardo senza disporre di un’analisi approfondita e completa dei conti della società, gestita dal 2018 da ArcelorMittal. Qualche mese dopo è il nuovo governo Draghi a versare una prima tranche da 400 milioni in Acciaierie d’Italia per sigillare l’accordo: il denaro, però, termina nel giro di poche settimane e viene utilizzato dall’amministratrice delegata Lucia Morselli (in quota ArcelorMittal) per coprire le spese correnti e in parte i debiti.

 

Da lì si apre una situazione di stallo, con ArcelorMittal socio di maggioranza al 68 per cento e lo Stato socio di minoranza al 32 per cento. In base agli accordi presi, tutto dovrebbe restare così, congelato, almeno fino all’aprile del 2024, per lasciare il tempo di completare il piano ambientale che, a cascata, consentirebbe alla magistratura di dissequestrare gli impianti per metterli a rogito e venderli allo Stato. Solo a quel punto il governo verserà il resto dei quattrini. Quindi: lo Stato sostiene di non poter versare il miliardo di euro promesso e salire in maggioranza perché, finché non saranno fatte le opere di ambientalizzazione, gli impianti sono in mano alla magistratura e non c'è proprio nulla da comprare. Anche la promessa dei 700 milioni di euro di garanzie da parte di Sace, la società di Cassa Depositi e Prestiti che rilascia coperture assicurative, è congelata, perché la situazione debitoria di Acciaierie d’Italia è troppo pesante: di conseguenza, le linee di credito che Unicredit e Banco Bpm si erano impegnate a concedere sono bloccate. Sul fronte opposto, ArcelorMittal è convinta che lo Stato possa e debba versare al più presto in Ilva i due miliardi promessi senza però cambiare la governance. Per quello, sostiene Arcelor, c’è tempo fino al 2024. Del resto il gruppo franco-indiano dice di aver già sganciato 1,3 miliardi di euro e che ora tocca allo Stato.

 

Ma il governo non si fida di versare tutti quei soldi senza poter decidere come spenderli, tanto più che il partner privato, quando è stato siglato l’accordo a fine 2020, non aveva fornito tutte le informazioni alla società di consulenza Kpmg per effettuare una corretta valutazione di Ilva. E mesi dopo ha preso corpo il sospetto che la multinazionale ArcelorMittal sfruttasse a proprio favore il posizionamento strategico dell’ex Ilva per conquistare quote di mercato in Italia, dubbi che i sindacalisti continuano a nutrire. Di vero c’è il nuovo record di fatturato di ArcelorMittal, che ha annunciato di aver registrato nel secondo trimestre di quest’anno vendite per 22,14 miliardi di dollari, in crescita dell’1,4 per cento su base trimestrale e del 14,5 su base annua, grazie agli elevati prezzi dell’acciaio.

 

E l’Ilva? In base al cronoprogramma dovrebbe produrre sei milioni di tonnellate d’acciaio, invece ne fa la metà. Dopo un 2021 chiuso non troppo male (4 tonnellate di acciaio; 3,3 miliardi di fatturato; utile netto a 300 milioni, contro una perdita di 266 milioni nel 2020) la produzione in Ilva sta ora registrando una battuta d’arresto a causa del caro energia, del crollo dei prezzi dei coils, cioè i nastri laminati d’acciaio, ma soprattutto per via del rinvio al 2024 delle decisioni sulla struttura societaria tra azionista pubblico e privato. La crisi di liquidità dell’Ilva è confermata da una bolletta da 300 milioni di euro che la società tarantina non riesce a pagare a Eni e una fonte vicina al dossier parla di oltre un miliardo di debiti commerciali nei confronti dei fornitori, che sono 2.100, di cui 320 pugliesi. L’amministratrice delegata, Lucia Morselli, ha sospeso l’attività dei 145 fornitori del gruppo, adducendo vaghe motivazioni. Di fatto il blocco delle forniture, la sospensione degli ordini e l’assenza delle materie prime in magazzino stanno paralizzando l’attività dell’impianto siderurgico. Secondo ArcelorMittal, l’Ilva ha bisogno subito di un’iniezione di liquidità, ma il problema è chi ci mette i soldi e per fare cosa. Il ministro Adolfo Urso si è detto disposto ad anticipare l’incremento della partecipazione pubblica dal 32 al 60 per cento già l’anno prossimo (nonostante fosse previsto solo al 2024 e in seguito al dissequestro degli impianti). Solo una volta salito in maggioranza, il governo verserebbe in Ilva le risorse a disposizione: ovvero i circa due miliardi che provengono dal Pnrr e dal previsto aumento di capitale, così come indicato nel decreto Aiuti bis firmato da Mario Draghi. Al contrario, il governo non è disposto a investire quel denaro in una società che non controlla, tanto più che lo scorso 17 novembre l’amministratrice delegata Morselli ha prima disertato l’incontro convocato al Mise dal ministro Urso e poche ore dopo ha sospeso l’attività dei fornitori, andando quindi allo scontro.

Il governo non ha intenzione di farsi intimidire e ha in mente un piano b: un fallimento pilotato attraverso la revoca del contratto che permette ad Acciaierie d’Italia di utilizzare gli impianti. Visto che anche ArcelorMittal non vuole sborsare ulteriori quattrini in una società priva di patrimonio tangibile (perché l’ex Ilva ha solo debiti e nessuna proprietà sugli impianti), la soluzione – la peggiore per i fornitori e la migliore per coinvolgere nuovi azionisti – è il fallimento pilotato, dando però il tempo ai fornitori di cartolarizzare i propri debiti e incassare una frazione degli stessi, per poi portare in liquidazione Acciaierie d’Italia e ripartire con una nuova società.

 

 

Solo a quel punto si aprirebbe la strada a una delle due società del Nord. Da un lato c’è il gruppo Marcegaglia, diretto da Antonio Marcegaglia, fratello dell’ex presidente di Confindustria, Emma, con un giro d’affari di sei miliardi: già nel 2017 sostenne ArcelorMittal in Ilva, ma fu obbligata dall’Antitrust Ue a uscire dalla cordata. Più concreto l’interesse di Giovanni Arvedi, 85 anni, che negli ultimi anni si è distinto sia per la capacità di realizzare acciaio a impatto zero, sfruttando nuove tecnologie fra cui l’idrogeno, sia per la crescita dimensionale del suo gruppo: l’ultima espansione è l’acquisizione della Ast, Acciai Speciali Terni, da ThyssenKrupp, al punto che Arvedi si candida a diventare il primo gruppo siderurgico italiano, con un potenziale fatturato da 7,5 miliardi e oltre 6.600 dipendenti. Giovanni Arvedi aveva già presentato un’offerta per Ilva nel 2017 e ora potrebbe tornare in campo, mettendo a disposizione le proprie competenze soprattutto sul fronte dell’ambientalizzazione e della conversione verde dell’acciaieria tarantina.

L'edicola

25 aprile ora e sempre - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 18 aprile, è disponibile in edicola e in app