Trent’anni di lotta
Il movimento No Tav è il più grande esempio di resistenza contro speculazione e devastazione ambientale
Sono passati 17 governi e sono stati spesi miliardi in studi e progetti, ma non è stato costruito un solo metro di ferrovia. Mentre i costi, anche ecologici lievitano, la Ue nicchia e i dissidenti finiscono in tribunale
Nel raccontare il movimento No Tav non si può tracciare né un punto né una linea, il movimento si può comprendere forse in uno snodo: nel 1995 si sono viste convergere, dopo anni di assemblee, persone che nella salvaguardia del proprio territorio hanno tracciato un destino comune. Dallo snodo del movimento passano, ogni giorno da trent’anni, comunità in lotta di tutta Italia e non solo. Comunque si voglia raccontare la storia, la Val di Susa rappresenta il più importante esempio di resistenza degli ultimi decenni contro l’esproprio, la speculazione e la devastazione ambientale. La Valle è stata attraversata da 17 governi (o forse da nessuno) che, ad oggi, non sono riusciti a costruire neanche un metro di binario, nonostante abbiano speso miliardi di euro; soprattutto non sono riusciti a fermare, anzi hanno forse alimentato, la resistenza del movimento contro la cosiddetta «grande opera inutile».
La linea ferroviaria Torino-Lione, contro cui il Movimento No Tav valsusino da trent’anni si oppone, prevede la costruzione di un Tunnel di Base che collega Susa a Saint-Jean-de-Maurienne, in Francia. Dal 2001 ad oggi sono stati realizzati solo studi, sondaggi geognostici e lavori preparatori per poco meno di 2 miliardi di euro spesi. L’estensione prevista è di 115 km, più precisamente due gallerie da 57,5 km. L’ultima stima del costo è di 9,63 miliardi di euro (2017, Cipess). Questo valore non tiene però conto dei rincari degli ultimi mesi, che ammontano ad almeno un 30 per cento in più sul costo totale. Bisogna notare che i quasi 10 miliardi di euro coprono solo il Tunnel di Base, tuttavia, affinché la tratta ferroviaria sia realizzata come da progetto, il tunnel deve essere collegato sia a Torino che a Lione con altre opere ferroviarie. In Italia, di queste opere non c’è ancora il progetto mentre in Francia, nel 2019, con un decreto ministeriale è stato deciso che non si costruiranno nuove linee ferroviarie e che verranno invece utilizzate le linee già esistenti per collegarsi al Tunnel, apportando, di conseguenza, minimi miglioramenti sulla tratta Torino-Lione già esistente. Infatti, anche se venisse costruito il Tunnel, senza le tratte di accesso, si risparmierebbero solo 30 minuti rispetto alla linea già in servizio. Mentre, se si dovesse realizzare la linea con il Tunnel, più le opere di collegamento necessarie, si arriverebbe ad un totale di quasi 30 miliardi di euro.
Ad oggi, i costi di costruzione sono integralmente sostenuti da Italia (57,8 per cento) e Francia (42,2 per cento). L’Unione Europea ha ipotizzato di rimborsare fino al 50 per cento del costo ma finora non ha preso alcuna decisione di finanziamento. È importante notare che la conferma del finanziamento è vincolata alla decisione da parte dei due Stati di realizzare anche le tratte di accesso. Al momento non vi è nulla di definito in merito a tale decisione. Entro il 31 dicembre 2022 Telt, la società partecipata italo-francese, avrebbe dovuto completare molti lavori preparatori, tra cui l’Autoporto di San Didero, lo svincolo di Chiomonte e parte del Tunnel di Base. Non essendo riuscita a realizzarli perderà varie centinaia di milioni di euro di contributi. Va sottolineato inoltre che l’Ue ha finanziato solo i lavori preparatori mentre per il resto dei finanziamenti, quelli per il Tunnel e le tratte di collegamento, non ha firmato nessun accordo vincolante. Dunque non è facile immaginare quando e se finiranno mai i lavori e soprattutto chi li pagherà.
Sicuramente basta guardare all’impatto ambientale stimato del progetto per capire che non è proprio in accordo con le politiche europee sul tema. Già a giugno 2020 infatti, la Corte dei conti europea ha dichiarato il progetto insostenibile a livello ambientale poiché si stima che la costruzione dell’opera provocherebbe emissioni di CO2 per 10 milioni di tonnellate le cui compensazioni avverrebbero dopo il 2050, anno in cui dovremmo raggiungere lo zero netto di emissioni. Per compensazioni si intende l’impatto positivo che il traffico di merci, ovvero il 90 per cento dei treni previsti per la tratta, ha rispetto a quello su strada, tuttavia per compensare davvero l’impatto ambientale della costruzione, il traffico di merci nei prossimi anni dovrebbe aumentare di dieci volte.
Nonostante la ferrovia non sia stata ancora costruita, i costi attualmente sostenuti per presidiare, da 11 anni, il cantiere del Tav, sono significativi. Per esempio, nell’ultimo anno e mezzo per il cantiere di San Didero si stima che siano stati utilizzati circa 50 mila euro al giorno, presidiando un’opera che ne costa 90 milioni, mentre per il cantiere di Chiomonte si è stimato un utilizzo di circa 90 mila euro al giorno. Va notato che gli ampliamenti dei cantieri hanno un impatto ambientale aggiuntivo che non viene preso in considerazione durante la valutazione generale. Questi ampliamenti non sono di per sé utili alla costruzione del tunnel ma alla «securitizzazione» della zona.
Negli anni sono stati quantomeno stridenti i tentativi del governo di mettere in piedi i processi democratici necessari per compiere un’opera pubblica degna di questo nome. Tra i più imbarazzanti troviamo, nel 2006, la formazione di un Osservatorio con la nomina di Mario Virano come presidente ovvero colui che che rivestirà poi il ruolo di dg nella società incaricata di realizzare il Tav; ma non solo: è stridente l’esclusione progressiva dei comitati No Tav dai tavoli e l’assenza assordante di un’opzione zero nella discussione ovvero quella di non fare l’opera e basta. Le grandi opere hanno un impatto inevitabile sui territori, i decenni passano e le analisi costi-benefici vanno adattate: le urgenze climatiche sono più pressanti e ignorare o provare a sopprimere trent’anni di resistenza generazionale è quantomeno sciocco. Quando le popolazioni locali, come è il caso del Tav, così come per il Muos e troppi altri casi in Italia, non sono parte dei processi democratici come le consultazioni o i negoziati, l’opposizione sembra essere naturale. Che lo Stato, in questi trent’anni abbia fallito la gestione del progetto Tav è un dato di fatto, ma soprattutto ha fallito nel suo sottrarsi al tribunale a cui deve sempre necessariamente rispondere: quello del popolo. Inconsapevole forse che la verità infastidisce ma poi radicalizza sempre e, come si dice da quelle parti, «No Tav si diventa».
I numeri di questa grande opera sono sicuramente impressionanti, lo sono anche quelli della risposta delle istituzioni all’opposizione: dall’inizio dei lavori più di 1.500 persone sono state indagate, ci sono stati 50 procedimenti penali, un maxi-processo con 53 imputati, carcerazioni preventive, accuse di terrorismo, di associazione sovversiva e a delinquere. Sono risposte istituzionali contro il movimento e le realtà che lo attraversano che sembrano voler solamente silenziare il dissenso, svuotandolo e provando a ridurlo a mera delinquenza. La criminalizzazione del movimento No Tav deve tenerci in allerta: a macchia d’olio tutto ciò che è anche solo geograficamente vicino a quelle realtà patisce un destino repressivo molto più aspro rispetto al resto della penisola. Basta osservare le recenti accuse agli attivisti di Extinction rebellion Torino: accuse impensabili per le modalità di disobbedienza civile che il movimento pratica. Il fatto che dei luoghi così fitti di resistenze suscitino reazioni del genere è un campanello dell’allarme di una «gestione penale del conflitto» da parte delle istituzioni (Chiaramonte, 2019).
Ad osservare questi movimenti che si muovono tra cantieri fantasmi e militarizzati ci si chiede dunque a chi appartiene la terra. A chi la abita? A chi la amministra? Viene spontaneo domandarsi se uno Stato possa mai ammettere di aver commesso un errore e se in democrazia ci sia lo spazio per fare un passo indietro, per ritrattare, per ammettere che forse i territori sono sempre più martoriati dai cambiamenti climatici, la gente dalla precarietà, e che forse nessuno ha davvero fretta di andare a Lione, soprattutto una scatola di ceci.