Il mostro sacro e il suo delfino. Enrico Rava, 83 anni, e Fabrizio Bosso, alla soglia dei cinquanta. In comune la tromba, lo strumento che da decenni li porta in giro per il mondo, il jazz in tutte le declinazioni e il gusto di attraversare il mare largo della musica, dall’improvvisazione fino al pop e al soul. A Stevie Wonder è dedicato il nuovo album di Bosso, “We wonder” (Warner Music), che verrà presentato dal vivo il 7 gennaio all’Auditorium Parco della musica, a Roma. Nove canzoni tra le più significative del leggendario musicista americano, da “Isn’t she lovely” a “Overjoyed”. Mentre di recente Rava ha realizzato l’album “The Song is You” per l’etichetta ECM, con Fred Hersch al pianoforte. Abbiamo fatto incontrare i due trombettisti: un dialogo tra passioni, miti, idiosincrasie, memorie che riaffiorano.
È capitato di vedervi insieme sul palco. Nel 2017, a Perugia per Umbria Jazz, Bosso invitò Rava a duettare in una canzone di Dizzy Gillespie. Cosa pensate l’uno dell’altro?
Enrico Rava: «Adoro Fabrizio, ascoltarlo è un piacere enorme. È uno dei trombettisti con maggior controllo dello strumento, non c’è Wynton Marsalis che tenga. Una volta in Francia eravamo in albergo, in due camere vicine: lo sentivo fare gli esercizi con la sordina. Sono rimasto a bocca aperta per quanto fosse bella la sua musica».
Fabrizio Bosso: «Con la sua libertà, Enrico fa capire davvero cosa vuol dire fare musica. Ha ancora voglia di trasmettere qualcosa a chi lo ascolta, lui che ha calcato palchi incredibili e suonato con musicisti incredibili. A differenza di tanti colleghi non ha paura dei musicisti, l’ho sempre visto cercare il dialogo. A me invece è capitato di suonare in big band con colleghi che speravano sbagliassi. Una cosa terribile».
Dieci anni fa Rava incise “Rava on the dance floor”, album tributo a Michael Jackson, adesso Bosso rende omaggio a Stevie Wonder. Cosa vi appassiona di questi due grandi artisti?
E.R.: «Michael Jackson è uno dei più grandi artisti del Novecento. È stato un grandissimo cantante, un compositore strepitoso e un ballerino straordinario, non a caso Fred Astaire lo apprezzava molto. Prima di lui, vedere un videoclip musicale era come mangiare una pizza cattiva: poi è uscito “Thriller”, ha chiamato grandi registi come George Lucas, coinvolto Marlon Brando in “Bad”. In particolare adoro i suoi ultimi due o tre dischi, i meno gettonati, piacevolissimi e interessanti, in cui usa elementi di musica contemporanea. Il suo percorso ricorda un po’ quello dei Beatles. Tuttavia non ho mai “jazzificato” Michael Jackson, ho rispettato quei ritmi, quel clima».
F.B.: «Sono cresciuto con la musica di Stevie Wonder, ho iniziato a improvvisare sui suoi dischi e su quelli dei grandi cantautori italiani. Trovo geniale la sua facilità nel costruire melodie che restano nell'orecchio di chi ascolta. Al tempo stesso le sue canzoni possiedono una profondità eccezionale dal punto di vista armonico. A differenza di Enrico, con il quartetto abbiamo portato la musica di Stevie nel nostro mondo, ma armonicamente non abbiamo toccato quasi niente perché la sua scrittura è perfetta».
Jazz e pop non vanno sempre d’accordo. I puristi storcono il naso davanti a certe contaminazioni.
E.R.: «I puristi sono integralisti, non mi interessa cosa dicono o pensano. La musica del Novecento, dal jazz al funky al rap, è figlia di quello che è accaduto in America a fine Ottocento, dove la memoria del ritmo africano si è incontrata con la musica sacra inglese, francese, italiana. Queste musiche sono tutte imparentate».
F.B.: «Sono d’accordo, aggiungo solo un’osservazione tecnica. Il risultato della contaminazione dipende dalla qualità di chi porta il jazz a incontrare il pop. Se Enrico suona un assolo in una canzone, come ha fatto milioni di volte, avremo la certezza che aggiungerà poesia. Purtroppo esistono canzoni pop con brutti assoli».
A proposito di miti del jazz, nel 1969 Rava ha conosciuto Miles Davis a New York. Cosa ricorda del vostro incontro?
E.R.: «Suonavo con un gruppo jazz rock che si chiamava Gas Mask, avevamo fatto un disco prodotto da Teo Macero, il produttore di Miles. Quella sera presentavamo l’album nel club Ungano, il tempio del jazz rock a New York. Ero fuori che aspettavo di entrare, appoggiato a una cabina telefonica, fumavo la mia cinquantesima Pall Mall senza filtro della giornata. A un certo punto vedo da lontano questo nero, piccolo, bellissimo, vestito super “hip”, trendy, con il cinturone e la giacca con le frange. “Oh, cazzo”, dico. Mi appoggia la bocca all’orecchio e mi fa con la sua voce roca: “Are you playing tonight?”, “suoni stasera?”. Cerco di essere cool e gli rispondo: “Yes, I play”, “sì, suono”. Lui aggiunge: “Okay, I will check you out”, “Vengo a controllarti”, poi entra nel club tra la folla, che si apre come le acque con Mosè. Telefono immediatamente a casa, all’epoca vivevo con la mia prima moglie, con Gato Barbieri e sua moglie. “Guardate, c’è Miles. Venite immediatamente con del Valium!”, dico. Mezz’ora dopo arriva il taxi, ho preso il tranquillante e ho suonato rilassatissimo». Miles era in prima fila con Teo Macero, credo di aver suonato bene. Quando sono sceso dal palco è venuto da me e mi ha dato un pugno sul braccio, mi è rimasto il livido per un mese».
Fabrizio Bosso, quali sono i musicisti più interessanti che ha conosciuto?
F.B.:«Un paio di episodi li ricordo volentieri. Una volta da bambino andai ad Aosta insieme a mio padre per vedere Dizzy Gillespie con l’orchestra. Pioveva a dirotto, siamo rimasti sotto l’acqua per un’ora e mezza. Un concerto pazzesco. Alla fine mio padre si avvicina alla scaletta mentre Gillespie sta scendendo, gli fa segno che anche lui suona la tromba. Ma non solo. “Anche mio figlio suona”, dice gesticolando a Dizzy, che si avvicina e, senza dire una parola, mi mette una mano sulla testa. E poi mi piace ricordare un altro incontro importantissimo avvenuto proprio grazie a Enrico. Anni fa Charlie Haden aveva bisogno di un trombettista per sostituire il suo durante il tour europeo. Enrico ha fatto il mio nome, non finirò mai di ringraziarlo».
Di Miles Davis abbiamo parlato. Tra i grandi trombettisti chi amate di più: Chet Baker, Wynton Marsalis o Louis Armstrong?
E.R.: «Louis Armstrong l’ho visto una volta in concerto a Torino quando avevo 15 o 16 anni. Un’emozione pazzesca. È il più grande di tutti, ha traghettato il jazz dal folklore alla musica d’arte. Marsalis è un grandissimo trombettista ma non mi ha mai emozionato. Invece Chet Baker lo adoro. I suoi dischi, insieme a quelli di Miles, João Gilberto e Sonny Rollins, li avrò ascoltati milioni di volte. In questi giorni suono in casa con le musiche di Chet Baker, che ho conosciuto quando suonavo la tromba da un anno e poi ho avuto la fortuna di frequentarlo tutta la vita. Se Miles è il massimo della drammaturgia, Chet è la bellezza pura. Ogni sua nota era come se fosse l’ultima».
F.B.: «Sono tre trombettisti che ci hanno insegnato tanto. Louis Armstrong mostra come si sta sul tempo, in maniera molto moderna per la sua epoca. Chet Baker ha fatto capire a tutti cosa vuol dire raccontare qualcosa con profondità senza sfruttare a tutti i costi i mezzi dello strumento. Marsalis è sicuramente uno dei trombettisti più forti di tutti i tempi. Mi sento mezza unghia rispetto a lui, ma la capacità tecnica non deve necessariamente piacere a tutti».
A volte la musica flirta con la letteratura e le arti visive. C’è uno scrittore, un pittore, un fotografo che influenza il vostro lavoro?
F.B.: «Sono sempre stato molto attratto dalle musiche da film. Nino Rota, Ennio Morricone, i grandi compositori. Tra i pittori amo molto Picasso e, in ogni caso, quando capita di suonare in un ambiente dove si respira altra cultura anche la musica prende un’altra strada».
E.R.: «Sono un lettore onnivoro. Lo scrittore che ho amato e amo di più è Proust, adoro Raymond Carver, mi piace moltissimo Philip Roth. Per me il più grande scrittore italiano del dopoguerra è Beppe Fenoglio, che conosco a memoria, e ho letto quattro o cinque volte “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Quanto alla pittura, mi piace tutta dal Quattrocento in poi. Mi è capitato di visitare qualche mese fa la Cappella degli Scrovegni, a Padova. È stato un tale choc che mi veniva da piangere».