Gli epistolari dei grandi autori erano destinati a parenti, amici, amanti. E avevano l’immediatezza e la natura scapigliata di post e tweet. Per questo paragonarli alle piattaforme di oggi non è una bestemmia. E tantissime raccolte tornano in questi giorni in libreria

In una piccola libreria antiquaria di Parigi, in rue des Beaux-Arts, lo scrittore Paul Léautaud scova la “Correspondance inédite” di Stendhal, due volumetti del 1855 fino ad allora passati inosservati. È la fine del 1893 e Léautaud non sa che quel suo gesto rivoluzionerà per sempre il rapporto tra epistolari e letteratura. L’autore chiamerà la “Correspondance” «la mia piccola Bibbia» e scatenerà per questo un dibattito pubblico, nel quale due pezzi da novanta dell’epoca, Barbey d’Aurevilly e Sainte-Beuve, sosterranno al contrario la superfluità di quelle lettere: «Non sono sincere, sembra un attore in tour che trasporta in valigia parrucche, barbe, costumi». Mentre Paul Valéry, poeta e vate, darà invece una nuova prospettiva a quella stessa interpretazione, aprendo inediti scenari: l’attore Stendhal, “l’eccentric man”, voleva essere nelle lettere disperatamente se stesso, e anzi voleva esserlo fin troppo, tramite sempre nuovi mascheramenti. La letteratura, in fondo, non è una menzogna che cerca la verità anche nella sua forma epistolare?

Alberto Moravia

Oggi conosciamo questa pagina di storia letteraria grazie alla minuziosa ricostruzione che ne ha fatto il critico Vito Sorbello. Le lettere, da allora, non sono state più una occasione per guardare dal buco della serratura “la vita giornaliera denudata” di un artista. Piuttosto, sono diventate una appendice del romanzo. E, nel caso di Stendhal, si dirà che hanno registrato i progressi di “un portatore sano della malattia della scrittura” che, al pari di Flaubert, scriveva ovunque (sui dorsi e ai margini dei libri, sulle bretelle, sui polsini delle camicie), come spiega lo stesso Sorbello nella presentazione dei tre volumi Aragno (presso cui ha curato anche le lettere di Rimbaud) dedicati alle missive dello scrittore francese, forse la pietra miliare della editoria epistolare in Italia.

Ma i primi germi di questa “malattia” editoriale (pubblicare in grande tiratura le lettere private degli uomini geniali, come fossero best seller) si erano già intravisti nel 2006, quando l’editore Fazi aveva stampato, a cura di Franco Rella, “L’opera e il suo doppio” di Gustave Flaubert, un estratto dallo sterminato carteggio personale dell’autore di “Madame Bovary”. Qui si registra un salto di qualità. L’edizione non solo non fa più della raccolta delle epistole un oggetto di morbosa curiosità da parte del lettore; ma neppure, come nel caso delle lettere di Stendhal, si limita a tracciare l’itinerario di uno scrittore alla ricerca di se stesso. Quel Flaubert privatissimo diventa addirittura «lo straordinario protagonista di un romanzo nascosto, che altri non è che lo stesso Gustave» e i suoi scritti privati sono indicati come «uno dei testi più grandi della letteratura di ogni tempo».

E così apriti cielo. Negli ultimi anni l’editoria italiana ci ha inondato di epistolari inediti. Le uscite non si contano. E ognuna porta il suo significato: le lettere di Pasolini (Garzanti) rivelano i suoi rapporti con le donne (Maria Callas, Elsa Morante), quelle di Camus (Bompiani) la sua storia d’amore con Maria Casarés, quelle di Moravia alla Morante (Bompiani) narrano l’Italia dal boom economico agli anni Ottanta, quelle tra Cecchi e Contini e tra Gadda e Parise (Adelphi) rivelano il panorama editoriale nostrano. E ancora, “Tutta la vita in lettere” nei due volumi su Dickens (ABEditore), i poetici segreti di Rilke (l’Orma), la discesa agli inferi di Capote (Garzanti), le avventure di Conrad (Giometti&Antonello).

Hannah Arendt

Le lettere hanno un vantaggio indubbio. Oggi non ne scrive più nessuno, dopo l’avvento di mail e WhatsApp. Così sono diventate archeologia. Il piacere dell’antico, il fascino irresistibile del vintage, hanno reso aureo il catalogo della milanese Archinto, casa editrice fondata nell’85 e pioniera italiana dell’editoria epistolare con oltre 140 titoli. Merimée, Dumas, Shelley, James, Wolf, Joyce, Canetti: c’è in pillole lo scibile del pensiero. E tra gli italiani ci sono Montale, Manganelli, Leopardi, Carducci, Saba, D’Annunzio. Tutti a confessarsi in sobrie tirature (cinquecento o mille copie a volume) che però presto avranno grande influenza sulle scelte editoriali successive. Con un ostacolo, però, sempre in agguato, quando si tratta di pubblicare vicende personali degli autori: «Gli eredi sono tremendi, sono dei censori», ha ricordato Rosellina Archinto.

Gli epistolari, in fondo, sono stati quasi i social della letteratura. Prima dell’avvento di Internet, le lettere che gli scrittori (ma anche i pittori, i filosofi e persino le teste coronate) scrivevano a parenti, amici, amanti, committenti, hanno avuto spesso la natura scapigliata di TikTok, l’amore per la propria immagine di Instagram, l’impudente seriosità di Facebook, l’immediatezza di Twitter. Ma, senza essere costrette ad essere pubbliche, come invece sono gli odierni social, le corrispondenze private hanno scansato stalker, fake news e hater. Niente veleni ad assediarlo, quando il protagonista impugnava la penna per recitare o confidarsi nel proprio personalissimo teatrino di parole.

Le case editrici che oggi hanno raccolto l’eredità epistolare di Archinto sono state soprattutto Adelphi, Bompiani, Rizzoli, Saggiatore. Nei loro cataloghi il “caro amico, ti scrivo” ha cospicua rilevanza. La prima vanta i due volumi di Beckett, i dialoghi tra lo storico delle religioni Mircea Eliade e il filosofo Cioran, il confronto per iscritto (durato una vita) tra Walter Benjamin e Gershom Scholem, fino ai recentissimi firmati Keats e Burroughs. Saggiatore ha risposto con le lettere della famiglia Mozart, Svevo, Dostoevskij, Mandela, Levi-Strauss, Mahler, Mann, Wolf e Allen Ginsberg, oltre ad avere in pancia due must del ramo: le missive di Oscar Wilde e Edgar Allan Poe. Quanto a Rizzoli, basti il recentissimo “Memorie di un irresistibile libertino” dell’autore di fantascienza Kurt Vonnegut.

La vastissima materia dei dispacci non è stata ancora ordinata dalla critica. Tuttavia, ogni singola uscita si avvale di un lavoro ricco di spunti sul fenomeno. È il caso de “La valle dell’anima, lettere scelte 1815-1820” del poeta londinese John Keats (morto a Roma nel 1821), volume curato da Alessandro Gallenzi. Questi messaggi cartacei, sostiene il curatore, hanno parecchie qualità: catturano la spontaneità del momento, sono un crogiolo creativo, consentono persino battute sconce, contengono dotte citazioni, sono piccole scene teatrali. Hanno la vena di “una sorta di autobiografia spirituale”. Molti scrittori li hanno utilizzati per lasciare “a futura memoria” un proprio ritratto più veritiero. Capita anche che le lettere si parlino tra loro: lo stesso Keats cita più volte l’epistolario di Rousseau e si chiede cosa mai avrebbe pensato del suo William Shakespeare.

Esistono anche carteggi deludenti. Gallenzi ne cita alcuni, fra cui quello di lord Byron. Ma ve ne sono altri monumentali: le lettere di Van Gogh al fratello Theo (Donzelli), i colloqui della filosofa Hanna Arendt con Walter Benjamin (Giuntina) e Martin Heidegger (Bompiani), l’epistolario “a trois” tra Friedrich Nietzsche, Lou Salomé e Paul Ree (Adelphi), che getta luce sull’ultimo periodo della vita del filosofo tedesco, prima della crisi di Torino e dei lunghi anni di internamento. Un altro long-seller sono le “Lettere a Milena” di Franz Kafka, curate da Guido Massino e Claudia Sonino, in edizione completa per Giuntina. Le lettere erano in possesso di Ernst Pollak e Willy Haas, due sopravvissuti all’Olocausto, che si incontrarono a Londra nel 1947. Pollak era il marito di Milena Jesenskà, morta nel lager di Ravensbruck, ma scelse ugualmente con l’amico di pubblicare i messaggi inviati dallo scrittore a sua moglie dal marzo al dicembre del 1920, nonostante il legame tra Kafka e Milena non fosse mai stato esclusivamente intellettuale.

Nelson Mandela

Spesso la corrispondenza tocca la sfera più intima: un caso proverbiale resta quello delle lettere di Luigi Pirandello all’amata attrice Marta Abba, che lei fece conoscere ma che furono pubblicate soltanto dopo la sua morte, avvenuta nell’88. Analoga importanza ha il recente carteggio pasoliniano curato da Antonella Giordano e Nico Naldini, perché tra le altre cose ci illumina sul legame profondo tra lo scrittore e Maria Callas, una amicizia nata sul set di “Medea” e che portò allora addirittura a ipotizzare un imminente matrimonio “tra la maga e il genio”. L’altra recente scoperta è la corrispondenza tra Albert Camus e l’attrice Maria Casarès, galiziana, figlia dell’ultimo ministro della Spagna repubblicana, fuggito a Parigi nel ‘36. Qui i due si incontrano nel ‘44, quando lo scrittore aveva già pubblicato “Lo straniero” e “Il mito di Sisifo”. Si amano, si lasciano, si ritrovano, Camus lascia la moglie, e intanto si spediscono centinaia di pensieri. Ora sono pubblicati anche in Italia, con prefazione della figlia dello scrittore Catherine. Un libro fitto di aneddoti sull’Europa del dopoguerra e sui suoi personaggi più famosi. Un affresco di ben 1.500 pagine, l’ultima odissea della lettera scritta a mano.