Mani pulite 30 anni dopo
Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile
Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera
Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”. Si tratta di considerazioni diffuse, sostenute dalla consapevolezza che “è sempre stato così”. E, per questo, è difficile, praticamente impossibile cambiare. Insomma, la criminalità e la corruzione sono date per scontate, dove ci sono risorse e ricchezze generate dal lavoro, dalle imprese, dalla finanza. Per questa ragione, però, si rischia di accreditare una visione “normalizzata” del fenomeno. Ritenuto inevitabile.
È una tendenza inquietante, confermata dalla recente ricerca di Demos-Libera.
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Agli occhi degli italiani, infatti, si delinea una geografia della criminalità meno caratterizzata, rispetto al passato. Senza luoghi di forza o di debolezza. Da Nord a Sud, passando per il Centro, la percezione del pericolo mafioso non mostra particolari differenze. Certo, c’è consapevolezza che si tratta di un problema importante. E molto serio. Con una storia e una tradizione precise. Ma, dopo tanto tempo e tanti anni, questo fenomeno sembra radicato nel “senso comune”. Inoltre, l’irruzione e la persistenza del Covid-19, come si era osservato nella precedente indagine di Demos-Libera (svolta un anno fa), hanno sicuramente allargato la penetrazione mafiosa nell’opinione pubblica. Non solo perché l’insicurezza genera ulteriori spazi “oscuri”, dove soggetti “oscuri” si possono insinuare. Ma perché, al tempo del Covid-19, sono aumentate le risorse, per iniziativa dello Stato e, prima ancora, dell’Unione Europea. Soprattutto attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: il Pnrr. E, come si è detto, l’aumento e la circolazione delle risorse “legali” attraggono l’attenzione dei “soggetti illegali”, oltre che dei destinatari, in ambito economico e sociale. D’altra parte, occorre competenza, per interagire con il Pnrr. Mentre, presso gran parte dei cittadini, questo piano costituisce una sigla “oscura”. Dalla quale è difficile trarre motivo di interesse. L’interesse, invece, cresce notevolmente fra coloro che vedono nel Pnrr un possibile, ulteriore, motivo di profitto. Di guadagno. Non solo in modo legale e legittimo. Al contrario.
La questione illegale, dunque, mantiene e attrae l’attenzione dei cittadini. Dentro, durante e “oltre” il Covid-19. La pandemia, semmai, ha fornito occasione e opportunità alle attività “mafiose” di agire, in modo più efficace. Dissimulate e “oscurate” dal cono d’ombra generato da altre paure, che hanno permesso loro di agire in misura maggiore, ma con minore evidenza. Tuttavia, il rischio di favorirne l’espansione, come si è detto, è accentuato dal sentimento di assuefazione, più che di rassegnazione. Infatti, non c’è dubbio che la condanna e il distacco, di fronte alle mafie, siano largamente diffusi. Assai più della minaccia mafiosa. Eppure, c’è la tendenza a considerare questi fenomeni criminali una “patologia nazionale”. Coerente con la corruzione. Com’è emerso, in modo esplicito e palese, al tempo di Tangentopoli. Di cui, nei prossimi giorni, ricorre il 30esimo anniversario. Non per caso, nella ricerca di Demos-Libera, una larga maggioranza dei cittadini, circa 6 su 10, ritiene che non sia cambiato nulla da allora. Mentre è calata (dal 30% al 22%) la componente di chi pensa che la corruzione sia cresciuta ulteriormente. Insomma, al di là del ruolo della mafia, agli italiani pare che non vi sia nulla di nuovo, sul “fronte illegale”.
Per queste ragioni è necessario, oltre che giusto, reagire anzitutto al senso di abitudine che rischia di avvolgere questi eventi. Non possiamo accettare che divengano “normali”, ai nostri occhi. Quasi “banali”. Perché la “banalità del male”, per echeggiare le parole di Hannah Arendt, rischia di generare un clima di acquiescenza intorno a oggetti e soggetti “criminali”. Tutt’altro che “banali”.
Per guardare oltre l’ombra della mafia, evitando di farci contaminare dal “mafiavirus” (come l’ha definito don Luigi Ciotti), allora, dobbiamo affidarci ai soggetti economici, politici, istituzionali che operano sul territorio e nell’ambiente in cui viviamo. Alle associazioni volontarie e alle organizzazioni di impresa. Ai centri di ricerca, alle Università, che possono contribuire all’analisi delle minacce che incombono. E, al tempo stesso, aiutarci a elaborare progetti, che permettano di affrontarle. Perché, per contrastare “il male”, occorre, anzitutto, riconoscerlo, definirlo. Individuarne le radici. Le direzioni. Evitando che divenga “normale”. Banale. Dunque: inevitabile. Non è così: il male, le mafie, la criminalità diffusa, non sono un destino ineluttabile. Ma molto dipende da noi. Per questo non dobbiamo “rassegnarci”. Ma “indignarci” e reagire. Per non perdere la nostra identità e il rispetto di noi stessi, insieme alla “sicurezza”. In definitiva: per non perderci.