Fosse una tipa da slogan, avrebbe già lanciato da un pezzo una qualche “Cosa rosso verde”, come tante volte hanno provato a farle dire, per presentarsi come una sorta di reginetta delle piazze e conquistare il suo posticino al tavolo della trattativa Stato-centrosinistra. Fosse una da facili elegie romantiche, almeno si prenderebbe adesso l’applauso dicendo di aver scelto tra due strade «la meno battuta», come nella poesia di Robert Frost, citata nel film L’attimo fuggente, finita nei tweet di Matteo Renzi (sic transit gloria mundi).
E invece niente di tutto ciò: nata e cresciuta nell’incrocio tra mondi e continenti, un nonno nato a Leopoli e fuggito in America dalle persecuzioni naziste, l’altro nonno di Siena, socialista e poi radicale, avvocato e parlamentare, un’infanzia da immigrata in Svizzera, senza cittadinanza, un nome doppio che raccoglie quello delle due nonne, Elena Ethel (detta Elly) Schlein, 36 anni, vicepresidente dell’Emilia Romagna e leader della lista Coraggiosa, con un’ambizione che solo gli stati di necessità possono tirare fuori (lo stato di necessità è quello in cui è ridotta la sinistra italiana), si accinge, adesso, a tentare di far fare un salto di specie alla sua parte politica. Bypassando la complessa geografia che va da Leu ai Cinque stelle. E utilizzando due parole scomode: una è «noi», semplice, fuorimoda, quasi imbarazzante. L’altra è contemporanea: intersezionalità, trasversalità, l’intreccio tra le battaglie per l’ambiente e la lotta alle disuguaglianze, il lavoro e il clima, il verde e il rosso, tra il noi e l’io.
È questo mondo, «La nostra parte», che racconta nel libro appena uscito per Mondadori, che vuol portare a costruire un nuovo orizzonte politico, un campo progressista, femminista, ecologista, che abbia inizio incontrandosi sulle battaglie da fare, prima ancora che per statuire una nuova appartenenza. Per fare da ponte tra la politica dei partiti e chi la politica la fa nelle piazze, nelle associazioni, nella pratica. «Facciamo la nostra parte», dice infatti nell’ultima pagina del libro. Un appuntamento a lungo rimandato (almeno da un anno) ma che adesso è stato fissato per marzo, e che prevede il capovolgimento dei canoni: niente leader, nessun partito, una trasversalità che ricorda il modello radicale. Ecco il punto di partenza, ecco lo spillover, il salto di specie, in un mondo che soprattutto a sinistra è spezzettato nella voglia di ciascuno di riaffermare il proprio potere sulle briciole. «Bisogna cambiare modello, mescolare le carte, altrimenti non andiamo da nessuna parte», dice.
Manca al massimo un anno alle elezioni, il “Giornale” sostiene che la sinistra s’è innamorata, l’ha già incoronata nuova leader. Dove è la corona?
«Non mi sento affatto incoronata, anzi penso che non abbiano chiesto alla sinistra, altrimenti saprebbero che non è così. Non vedo traccia di innamoramenti».
E non si sente leader?
«La sinistra non ha bisogno di affidarsi a una figura sola e il modello dell’uomo solo al comando è sbagliato anche nel caso si tratti di una donna. Non servono le traiettorie individuali, ma un moto collettivo e trasversale al quale vorrei portare il mio contributo».
È arrivato il momento di avviarlo? Nell’ultima pagina invita a una mobilitazione questa «nostra parte», ha scritto tutto il libro per dare un appuntamento?
«Questo libro ho iniziato a scriverlo tre anni fa, ero ancora europarlamentare, cercavo di costruire un fronte ecologista femminista e progressista per l’Europa, quello che poi abbiamo realizzato in Emilia-Romagna. In queste pagine ho incastrato e fatto sedimentare pezzo a pezzo, passo a passo, quel che ho osservato e imparato da tante persone, in modo da restituire la visione d’insieme che era frutto di questo impegno. Ho provato a tessere il filo di una visione, ho raccolto quello che secondo me serve alla politica. Perché, al contrario che nei partiti, nella società la visione che coniuga giustizia sociale e ambientale sta già marciando. Nelle piazze le nuove generazioni manifestano per i migranti, per l’ambiente, contro il razzismo. Ci indicano un modello, una via. Sono quelli che adesso animano le mobilitazioni studentesche, dopo le morti per l’alternanza scuola lavoro».
E che vengono manganellati, come se fossimo in un governo Berlusconi.
«Già. Mi auguro che il governo e il ministero dell’Interno facciano chiarezza, perché quell’immagine è preoccupante, tanto più se la mettiamo in confronto con le manifestazioni di novembre, quando cortei non organizzati e infiltrati da neofascisti sono arrivati a devastare la sede della Cgil, il più grande sindacato italiano».
Lei crede che sia possibile un nuovo impegno? Racconta che la sua generazione non ha mai avuto un rapporto facile con la politica: guardava i cartoni animati, mentre Berlusconi trionfava.
«Siamo una generazione che non si è sentita più rappresentata, ci siamo allontanati dalla politica, lo dice anche il mio percorso, lo racconto nel libro. Ma se non ci occupiamo della politica, sarà la politica a occuparsi di noi: è per questo che bisogna scegliere di essere partigiani, non indifferenti».
In tutto questo cosa c’entra la sinistra?
«Serve avviare un processo bidirezionale. Se non si riconosce il filo che le lega, quelle mobilitazioni non entreranno nei luoghi in cui si decide. Ma anche alla politica è indispensabile riallacciare i fili con ciò che si muove fuori da lei: nessun partito sarebbe riuscito a scatenare le mobilitazioni che abbiamo visto ad esempio sul clima; sono luoghi sempre più chiusi in se stessi, autoreferenziali».
Lei è nata nel 1985, ha vissuto un’adolescenza tra le guerre in Afghanistan e Iraq e il G8 di Genova. Nella disillusione verso la politica. Adesso la politica è ancora più debole, ci sono venti di guerra in Ucraina, ci sono i manganelli in piazza.
«Anche questa è una generazione che fatica a credere nella politica come strumento, però ha saputo ritrovare l’etica e l’estetica del mobilitarsi attorno a una causa giusta, grazie anche alle nuove tecnologie che non avevamo. Una volta chi andava a manifestare era visto come uno sfigato, ora lo sciopero per il clima è un posto dove stare: stanno rendendo cool andare in piazza».
Il Parlamento ha appena rieletto Sergio Mattarella, 80 anni. Al governo c’è Mario Draghi, che è trattato come un ragazzo, avendone solo 74. L’emergenza pandemica sembra una comoda coperta sotto la quale la politica si è accoccolata. Una come lei non si sente a disagio?
«Questo non è un paese per giovani e per donne, ma dobbiamo prenderci lo spazio che dobbiamo avere, non possiamo aspettare che qualcun altro ce lo dia. D’altra parte, il senso di responsabilità del presidente Mattarella non deve far distogliere lo sguardo dalla forte crisi sistemica della politica: pensare che dopo nove anni dal bis di Giorgio Napolitano la situazione sia questa, è un elemento di forte preoccupazione che non vedo attraversare la politica. Si dovrebbe alzare lo sguardo dai telefonini, dimenticare l’ansia da hashtag quotidiano. Dobbiamo darci una visione lunga e larga, non possiamo fare questa discussione quindici minuti prima del voto».
Siamo già a quindici minuti dalle elezioni.
«Questa è una fase in cui, dopo la rielezione di Mattarella, le forze politiche mi sembrano più incentrate sul proprio dibattito interno: ma ci serve anche un luogo dove discutere un progetto per il Paese, non possiamo passare un anno così».
Cosa c’è in cantiere?
«Ci sono vari piani di azione: ad esempio le Agorà messe in piedi da Enrico Letta, aperte anche a chi non fa parte del Pd, hanno dato un luogo di discussione per parlare anche di ciò su cui ci siamo divisi. Per quel che riguarda me, la nostra parte, credo sia indispensabile mettere in campo il prima possibile un progetto che parli alle tante persone che hanno patito gli effetti della disuguaglianza, discutere insieme con tanti compagni e compagne di strada di come tradurre quella che è una visione comune in proposte concrete, su cui ci possiamo battere, ciascuno a suo livello, tutti insieme, andando oltre le appartenenze».
Un appuntamento che non ha la forma di un movimento o di un partito?
«L’obiettivo non è costruire un altro recinto, ma al contrario, trovare buone ragioni per superare i recinti. Per andare dove, lo decideremo strada facendo. Ma speriamo che questo dia un contributo anche agli altri: al Pd, alle forze della sinistra ecologista, anche al M5s. Il presupposto, il modello è quello che abbiamo messo in atto a Bologna: ci si siede insieme, e si cuce, nella trasversalità delle appartenenze. Insomma facciamo politica insieme, non la fa più nessuno».
Insieme con chi?
«Molti sono citati nel libro: non è un problema di nomi ma di gambe».
Scrive che la politica divide ciò che nelle piazze è unito. E sulla scheda elettorale?
«Presto per dirlo. L’offerta politica attuale è insufficiente: quelli che si mobilitano in piazza, sulla scheda possono scegliere tra grandi contenitori con alcune forti contraddizioni, quindi senza chiarezza. Oppure, più a sinistra, una serie di contenitori più piccoli: troppa scelta, poca unità. Questi due elementi, umilmente, dal mio punto di vista, sono respingenti per chi fa politica fuori dai partiti: vogliono posizioni decise, un impatto forte, un grande contenitore ma che abbia una linea chiara su quello su cui si stanno mobilitando».
E pensa che questo tertium arriverà da voi?
«Possiamo dare un contributo ma non è una cosa che risolviamo da soli. Nessuno deciderà da solo cosa ci sarà su quella scheda elettorale. E non possiamo anticipare l’esito al processo che è appena cominciato. C’è ancora un po’ di tempo: ci permetterà di riallacciare i fili con quello che c’è fuori, ai contenitori più piccoli di avvicinarsi, a quelli più grandi di risolvere le loro contraddizioni. Discutiamo delle comunità energetiche o dello statuto del lavoro digitale, perché lo statuto dei lavoratori ha più di cinquant’anni e intanto col digitale è spuntato un nuovo cottimo. Parliamo del fatto che il lavoro di cura non pagato, e affidato quasi sempre alle donne, è un elemento di freno allo sviluppo dell’economia. Discutiamo di un piano industriale green che infrastrutturi il Paese – e che il governo non sta facendo. Meglio che guardarci negli occhi aspettando di trovarci tutti simpatici».
Il fronte referendario è parte di questa parte?
«Penso che debba esserlo. Le battaglie referendarie sono un pezzo di questo tempo. Il no ai quesiti su eutanasia e cannabis è stata una grande delusione, dopo la mobilitazione di massa che c’è stata: due milioni di firme che chiedevano di esprimersi democraticamente».
Non le sembra che il Pd, il centrosinistra, sia stato poco chiaro sull’eutanasia?
«Già».
Che posizione dovrebbe prendere?
«Sono temi etici complessi, non voglio banalizzare, ma credo davvero che il centrosinistra non possa eluderli come ha fatto in questi anni. Penso in particolare che debba abbracciare questa battaglia: è innegabile che se siamo così indietro perché la nostra amata Repubblica non è ancora così laica come vorrebbe la Costituzione. Abbiamo già visto cosa è accaduto sul ddl Zan. Eludere queste discussioni significa rifugiarsi in posizioni poco chiare: e la destra su questo punto funziona meglio di noi. Una persona normale che debba dire tre cose su cui ci stiamo battendo nel campo progressista, fa fatica».
Nel suo libro si scaglia contro il jobs act, che fu varato da Renzi, ma non dice nulla sul reddito di cittadinanza, fiore all’occhiello dei Cinque stelle.
«Penso che uno strumento di sostegno al reddito sia indispensabile, non credo che quello fosse il migliore possibile, anche se è stato una fortuna averlo nella pandemia. I centri per l’impiego sono la sua parte più labile: avrebbe dovuto dialogare con le politiche attive del lavoro, che in questi anni sono state oggetto di operazioni contraddittorie, portando a una progressiva precarizzazione».
Oltreché nella chiarezza, il centrodestra è più capace a valorizzare le donne? A destra ci sono più leader, in Italia con Giorgia Meloni, ma non solo.
«Sia il sessismo sia la cultura patriarcale permeano tutta la società, quindi anche tutta la politica. Non c’è alcuna superiorità di uno schieramento su un altro. Poi è vero che ci sono alcune donne che nel fronte conservatore sono in posizioni apicali, ma non mi rassicura circa il fatto che ci sia meno sessismo. C’è una differenza tra leadership femminile e femminista: non mi serve una leader donna, se non si batte per l’emancipazione di tutte le donne, se non si pone in maniera conflittuale rispetto alle basi della società patriarcale. Dopodiché questo non giustifica l’arretratezza del centrosinistra da questo punto di vista».
Nel libro ha messo da parte la riservatezza per raccontare un pezzo della sua storia familiare. Perché?
«La mia è una storia come tante altre che intreccia migrazioni e grandi sconvolgimenti del Novecento, compone un mosaico di appartenenze che alla fine genera un senso di appartenenza più vasto. Nel noi c’è anche l’io che non si tira indietro: ci saremo in quello che faremo nelle prossime settimane».
È un progetto che coltiva da tempo? Mesi fa preannunciò che stava lavorando a un’operazione pirata…
«Speravo di essere più convincente verso gli interlocutori politici. Il fatto che ancora non avvertano l’esigenza di collegamento col mondo che c’è fuori di loro, ci spinge a metterci in moto con chi ci sta, per provare a indicare una strada diversa e una dinamica diversa. Altrimenti il rischio è quello delle chiamate sparse all’ultimo minuto, come è stato per le europee».
Le fu offerto un posto da indipendente nella lista guidata da Carlo Calenda, lei disse di no.
«Proviamo ad avviare un momento di discussione collettiva e trasversale. A dare le carte, per una volta. Incontrarci attorno a una visione. Da lì capiremo come fare politica, insieme».