Viaggio tra le trans e le prostitute che hanno animato la vita del quartiere di Catania: «In queste case venivano le donne buttate fuori dalle famiglie ed è stato per decenni luogo di accoglienza e rifugio di tanti omosessuali. Ora invece siamo fantasmi in mezzo agli spacciatori» (foto di Lorenzo Castore)

Catania. «Scusi sa dove posso trovare Franchina?». La prostituta seduta su una traballante sedia di legno sorride: «Più giù, sempre dritto, la seconda traversa a destra. Lì di fronte trova la sua stanza, proprio sotto il manifesto di Raffaella Carrà e accanto alla statuetta della Madonna». Pioviggina in via delle Finanze, stradina d’ingresso nel quartiere San Berillo, un rettangolo di casupole di pietra lavica e mattoni rossi una volta simbolo “di vita” adesso solo diroccate, cadenti e abbandonate. Per strada ci sono dei ragazzi africani che giocano a pallone, un altro gruppetto con zaino in spalla che spaccia fumo e lì, proprio girando l’angolo, c’è il basso di Franchina, all’anagrafe Francesco Grasso, trans che qui si prostituisce da più di trent’anni.

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Una delle ultime anime perdute di San Berillo, che di giorno si aggirano per la città soffocando la loro essenza e il pomeriggio vengono in questo rifugio una volta comunità e casa. La sera poi tornano nelle loro abitazioni sparse per le periferie di Catania e i paesi del circondario. Franchina, Lulù, Cioccolatina, Ramona, Brigida, Ornella, Monica la vichinga, Fiorella, Rosa, Ambra, Graziella, catanesi e siciliane, sono le ultime trans che ancora si prostituiscono ogni tanto in queste viuzze, una volta allegre, colorate, vive come non lo era in passato la gran parte della città. Sono le ultime anime, e memorie, di quello che è stato un quartiere unico nel suo genere in Europa e per quasi venti anni sono state fotografate da Lorenzo Castore, che ha appena pubblicato il suo lavoro, “Glitter blues”, e da Parigi a Modena sta allestendo personali su questa sua esperienza. «Lui ha colto il nostro profondo essere e forse per questo nei suoi lavori fotografici sembriamo segnate dalla vita, dal tempo, con i suoi chiaroscuri e primi piani che ci invecchiano facendo però emergere qualcosa del nostro vissuto», dice Franchina, in piedi sulla soglia della sua stanza mentre parla con una donna di mezza età: «Lei è Rosy, non è una trans, ci dividiamo l’affitto e facciamo i turni quando arrivano i clienti», dice mentre un signore sulla sessantina, baffetti bianchi e passo scattante, con la cadenza tipica del catanese, una specie di parlato-cantato che intona armonie dal sapore orientale, si avvicina: «Con permesso signori, io scambio due chiacchiere con Rosy». I due entrano nella camera da letto, con coperta tigrata, lavandino accanto e una luce al neon che sembra messa lì da uno scenografo per dare calore solo a un pezzo della stanza lasciando il resto nella penombra. D’altronde chiusa la porta quello che importa non è la vista, ma il tatto, l’odore: non c’è bellezza estetica, c’è solo affetto, quello sì, che traspare subito da come i due entrando si fanno cenni d’intesa.

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Franchina, capelli lunghi e ancora biondi, occhi chiari e nessun seno o altra parte del corpo rifatta, è davvero la memoria storica del quartiere. Ne è anche un po’ l’intellettuale, avendo raccontato in due libretti la sua intensa vita di omosessuale e trans dalla fine degli anni Settanta, nella Catania cupa e nera oppressa dalla mafia e dai rigurgiti fascisti, ai giorni nostri. E da intellettuale inizia la discussione partendo dal dibattito in corso oggi sul genere e su come renderlo nella scrittura e nella parola: «Chiariamo subito una cosa, a me non importa se quando scriverai l’articolo utilizzi il femminile o il maschile. Noi tutti esseri umani facciamo fatica ad accettarci per quello che siamo. E noi transessuali facciamo una fatica maggiore e ci creiamo dei modelli che non esistono. Ognuno è libero di sentirsi come vuole e non ci sono regole ed etichette che qualcuno ci può imporre anche in nome di questa nuova sensibilità verso il nostro mondo. Per quel che mi riguarda io sono Franchina e Francesco, sono donna e uomo e sono unica in questo. La natura non sbaglia: se non sono solo uomo e solo donna, questo vuol dire che sono anche donna e anche uomo. Mi puoi definire perfino “puppu” (omosessuale in catanese, ndr), io non mi offendo perché quel che conta è il tono e il modo in cui me lo dici. Mi puoi definire trans e omosessuale offendendomi nel profondo perché lo dici magari con un evidente tono dispregiativo. Quindi niente etichette, anche se quando sono a San Berillo tutti mi chiamano e conoscono come Franchina».

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Sotto il manifesto della Carrà, e accanto a una statuetta della Madonna, Franchina racconta la sua vita, che è quella di San Berillo, in fondo. «Può sembrare strano ma io, che ho scoperto di essere gay a 15 anni quando frequentavo il liceo e il cuore batteva per un compagno di banco, non ho mai avuto problemi nella mia famiglia. Ricordo solo un momento di tensione, quando a casa di un cugino lo zio ne annunciò il fidanzamento con una ragazzina. Mio padre disse a voce alta: “Anche Franco presto si fidanzerà con una ragazza”. Per me fu come una pugnalata, mi alzai di scatto e urlai: “Nessuna ragazzina, se non l’avete capito a me non piacciono le femmine”. Da allora i miei genitori non mi hanno detto più nulla. I problemi erano fuori da casa. Subito venni etichettata come il gay, il frocio. Una mattina del gennaio 1982, la ricordo come fosse ieri, mentre andavo a scuola e camminavo in via Etnea, un ragazzo in moto mi gridò “puppu”. Io gli diedi una brutta risposta, lui piantò una frenata, scese dalla moto e mi diede un pugno in faccia fortissimo. Andai in ospedale da sola, grondando sangue. Ai miei non dissi nulla per non farli soffrire. Quel dolore me lo porto ancora. Ma in questi trent’anni Catania è cambiata, oggi per me è la città meno omofobica che ci sia in Italia, ho girato tanto da Milano a Reggio Calabria, e posso dire che qui mi sento accolta e sicura. Anche grazie a San Berillo si è modificata la mentalità dei catanesi: tutti dicono che non ci vanno con i trans, ma ci vanno, ci vanno: giovani, sposati, adulti e anziani. Conosco ormai quasi tutta Catania e loro conoscono me, conoscono noi. E questo ha aiutato a farci sentire oggi sereni in questa strana città piena di problemi». Franchina da quando ha vent’anni si prostituisce a San Berillo e non ha mai abbandonato il quartiere: «Potevo trovarmi un lavoro, ma non l’ho fatto. Alla fine mi piaceva e mi piace prostituirmi, dare amore e riceverlo. Certo so cosa è la violenza, il degrado, li ho vissuti entrambi sul mio corpo. Ma in queste casupole diroccate e umide ho vissuto anni bellissimi. Questo era un quartiere unico in Europa, nulla a che vedere con Amsterdam: lì trans e prostitute sono souvenir, qui invece eravamo una comunità vera. In queste case venivano le donne che restavano incinta fuori dal matrimonio o non sposate, donne buttate fuori casa dalle famiglie. Noi ci davamo da fare per crescere i loro bambini. Questo è stato per decenni luogo di accoglienza e rifugio di tanti omosessuali. Oggi invece siamo quattro fantasmi in mezzo a spacciatori e migranti cacciati dal Cara di Mineo e che qui hanno trovato almeno un tetto, ma nulla di più e per questo spesso sono arrabbiati, violenti. Poi ormai quasi nessuno si prostituisce in queste viuzze perché i clienti preferiscono prendere appuntamenti in altre case attraverso internet o telefonando direttamente alle tante escort».

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Del gruppo di trans catanesi anima e memoria di San Berillo fotografati in questi venti anni da Castore, solo Franchina si prostituisce ancora nel quartiere. Ogni tanto, ma raramente, si vede anche Lulù, all’anagrafe Marcello Farace. Quando è nell’orbita di San Berillo Lulù vuole essere chiamata così «ma lontano da qui sono Marcello». Seduta in un bar di corso Sicilia mostra alcune sue foto a colori e in posa di quando aveva venti anni di meno: «A me piace la bellezza, le foto di Lorenzo mi fanno troppo in ombra, ma io sono luce e colori», dice parlando a raffica e mangiandosi le parole nella fretta di dirle. «Per anni e anni mi sono prostituita a San Berillo, per me era come recitare una parte: quella della donna di spettacolo, sgargiante e sopra le righe. Che anni, che felicità. Oggi abito nel quartiere Librino, a casa vengono i miei clienti storici e mi pagano anche 200 euro. San Berillo non mi piace più ultimamente, ci sono troppi migranti, troppa violenza e spaccio. Ho ancora una stanza nel quartiere, ma ci vado poco». Anche la storia di Lulù non è quella di una persona emarginata dalla famiglia, anzi. «Mio padre era il direttore delle poste centrali di via Etnea, eravamo una famiglia borghese, e diceva sempre che io ero femmina come la mia gemella. A otto anno mi travestivo da donna, facevo spettacoli in casa. I miei genitori mi hanno sempre capita e negli ultimi anni della loro vita ero il loro sostegno. Mio padre ha sbagliato qualche investimento e siamo finiti al Librino, quartiere difficile e periferico». Lulù due volte alla settimana porta i fiori sulla tomba dei genitori e su quella del suo compagno: «Il mio grande amore è morto per un tumore, lo amo ancora come il primo giorno che l’ho incontrato. Ho sempre avuto compagni bellissimi. Ma lo sai che ancora oggi piaccio? L’altro giorno proprio a San Berillo due studenti di medicina, due cugini, sono voluti venire proprio da me!».

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Vanitosa, Lulù, come lo è Franchina e come lo sono le altre trans una volta anima di San Berillo. Nei loro volti, nelle loro rughe, c’è un pezzo di storia di Catania, della Sicilia. Ci sono dolori che non raccontano, vite che in fondo non si sono mai sciolte nel flusso della città. Ma che qui, tra queste casupole diroccate e basse con il cielo incombente, erano parte di una comunità che non c’è più e non tornerà. Come un civiltà estinta, restano solo alcuni reperti in carne o in mattoni di pietra nera dell’Etna. Anime in penombra, quasi ormai scomparse ma rese un po’ immortali da Lorenzo Castore, i primi. Rifugio per i nuovi emarginati, i migranti, i secondi. Ma sempre resti di un mondo passato. n

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