Il no ai referendum è solo l’ultimo episodio. E dimostra una sempre maggiore chiusura delle Istituzioni verso la società civile

La democrazia rappresentativa è morta, la democrazia diretta ha fallito, e anch’io non mi sento molto bene. Si potrebbe parafrasare Woody Allen per raccontare cosa sta accadendo nell’Italia del 2022, due anni dopo l’inizio della pandemia.

 

Speravamo in un risveglio della partecipazione, della mobilitazione, del dibattito, ci ritroviamo di nuovo nel gelo. I referendum servono a questo, non solo a votare nel merito delle questioni sottoposte alla consultazione. In pochi lo ricordano, ma prima che fosse approvata la legge sull’aborto, la numero 194 del 22 maggio 1978, in settecentomila firmarono per abrogare le norme del codice penale Rocco del 1930 che punivano chi provocava l’interruzione di gravidanza di una donna (consenziente o non consenziente) e prevedevano i reati di aborto procurato e di istigazione all’aborto.

 

Il referendum, promosso dal Partito radicale di Marco Pannella, dal movimento per la liberazione della donna e dall’Espresso con il direttore Livio Zanetti, fu dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale, ma la consultazione degli elettori fu rinviata per le elezioni anticipate del 1976. Dopo un lungo dibattito in Parlamento, la legge sull’aborto fu votata dalla Camera il 14 aprile 1978 con 308 voti favorevoli e 275 contrari e fu approvata dal Senato giovedì 18 maggio, con 160 sì e 148 no. Nelle stesse settimane, il Parlamento approvò la legge 180 sugli accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori, che prese il nome dello psichiatra Franco Basaglia, con cui l’Italia abolì i manicomi e gli ospedali psichiatrici. Le commissioni Sanità di Camera e Senato votarono in via legislativa, senza passare dall’aula, il testo del democristiano Bruno Orsini, psichiatra di professione, con una procedura accelerata che serviva ad evitare, come nel caso dell’aborto, un referendum proposto dai radicali. La legge fu approvata il 10 maggio. Il giorno prima, il 9 maggio 1978, il cadavere del presidente democristiano Aldo Moro era stato ritrovato nel bagagliaio della Renault rossa in via Michelangelo Caetani nel cuore di Roma.

 

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Non è nostalgia di una stagione passata, anche se in questo revival di anni Settanta-Ottanta, il ritorno dell’inflazione e della guerra fredda tra Occidente e Russia, ci starebbe bene anche un po’ di partecipazione sociale e politica. È soltanto il ricordo di un momento in cui, tra mille conflitti e contraddizioni, ciascuno dei soggetti in campo sembrava in grado di fare al meglio il suo mestiere.

 

La società civile, con le firme e i referendum (e un organizzatore politico di prim’ordine come Pannella), riusciva a dettare l’agenda della politica. Il Parlamento, pur diviso tra democristiani e comunisti, cattolici e laici, approvava leggi sui diritti civili che resistono ancora a distanza di decenni. La Corte costituzionale spingeva il confine dell’applicazione della Carta un passo più in là, riconoscendo ai principi contenuti nei primi articoli della legge fondamentale dello Stato un programma per il futuro, non la conservazione dell’esistente.

 

Oggi la società civile è raffreddata e il Parlamento è paralizzato. Sulla gestione della pandemia e sulle questioni economico-sociali è tutto delegato al governo del supertecnico Mario Draghi. Sulla scelta istituzionale più importante, l’elezione del nuovo capo dello Stato, per la seconda volta i grandi elettori hanno chiesto al presidente in carica di svolgere un secondo mandato, per superare l’impasse e la girandola delle votazioni a vuoto. E sui diritti civili, sulle domande sulla vita e la morte, il corpo e le sue trasformazioni, i sentimenti, le questioni che dividono in modo trasversale gli schieramenti politici e le coscienze dei singoli, si naviga al buio, senza il soccorso di visioni del mondo che possano aiutare a orientare il cammino.

 

Fino a pochi anni fa il no della Consulta alla possibilità di una consultazione referendaria sull’eutanasia sarebbe stato attribuito all’influenza della Conferenza episcopale, allo strapotere delle gerarchie ecclesiastiche, dei vescovi. Ma oggi la Chiesa è un potere debole, per fortuna, e - come già successo in occasione del ddl Zan - la stampa cattolica a partire da Avvenire combatte una battaglia di idee, un confronto a viso aperto, non richiede un privilegio.

 

Le sordità, la paralisi, le chiusure vanno tutte cercate all’interno di un sistema di rappresentanza e di istituzioni che ha smarrito il contatto con la società, soprattutto con quella parte di società che sono i giovani. Come ha detto Sergio Mattarella, l’assenza dei partiti e dei corpi intermedi colpisce chi è più debole e solo. Così, le lobby dei balneari troveranno rilevanti appoggi in Parlamento per modificare le norme sulla concorrenza dell’ultimo decreto. E una cordata favorevole ai farmacisti è intervenuta per impedire che i tamponi antigenici fossero effettuati anche nelle parafarmacie (lo raccontano Vittorio Malagutti e Carlo Tecce sull’Espresso). Mentre i giovani non hanno sindacati e gruppi di pressione che li difendono e li rappresentano. E non li hanno neppure i malati con le loro famiglie, chiamate a uno sforzo di assistenza, di cura, di vicinanza, senza aiuto da parte dei servizi sanitari e sociali, costrette a compiere scelte decisive in solitudine.

 

Nel merito del referendum sull’eutanasia, ci sono le domande che ciascuno di noi si è trovato ad attraversare di fronte alla sofferenza di una persona cara, spesso senza trovare una risposta. Il giudizio di inammissibilità della Consulta sul quesito ha impedito che diventassero occasione di dibattito pubblico e politico. Dal corpo delle persone al cuore della politica, come scrive Marco Cappato.

 

Nel metodo, il no su eutanasia e cannabis che arriva dopo due milioni di firme raccolte, è un altro schiaffo a chi si è mobilitato nei mesi passati, non per un suo interesse diretto, ma per fare qualcosa per gli altri, i diritti di tutti. La Corte presieduta da Giuliano Amato, che ha presentato le decisioni sui referendum in un’inedita e incredibile conferenza stampa, ha piena legittimità di decidere a prescindere dalla quantità di consenso che ha raccolto una richiesta referendaria e senza il timore dell’impopolarità. È la regola stabilita dalla Costituzione che rispettiamo e amiamo. Ma le regole si possono cambiare. O si possono interpretare con maggiore sensibilità per il momento storico. E il momento storico - la fase di post-pandemia - richiede l’esaltazione di ogni capitale sociale, di ogni possibilità di mobilitazione, non la sua mortificazione.

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Invece, gli elettori si troveranno sulla scheda soltanto i referendum sulla giustizia che sono iper-politica di Palazzo, utilizzati dai partiti per regolare i conti con i magistrati e dalle toghe espulse dall’ordine come Luca Palamara per vendicarsi dei colleghi, trent’anni dopo l’inizio delle inchieste Mani Pulite. Per la gioia del neo-garantista Matteo Salvini, garantista con se stesso, sia chiaro. E con l’aiuto dei fiancheggiatori del movimento che aveva proposto alla politica italiana come sol dell’avvenire la democrazia diretta e che ora si è chiuso a riccio nei palazzi romani.

 

Il giudice costituzionale indicato dal Movimento 5 Stelle Franco Modugno è stato visto sbuffare platealmente mentre i promotori del referendum sull’eutanasia esponevano il loro quesito. Un tic che riassume tutto. La democrazia come una fastidiosa incombenza. I giovani come rompiscatole da occultare, osteggiare. Gli Inascoltati, li abbiamo chiamati nella storia di copertina (firmata da Marco Grieco), che è qualcosa di più degli invisibili: manganellati dalla polizia se osano protestare, ignorati da politici e media. Mentre l’Europa attraversa una tensione bellica che non si vedeva da decenni: tute mimetiche, esercitazioni al confine, minacce contrapposte, il tavolone di sei metri di Vladimir Putin fabbricato a Cantù che si affolla di leader europei a caccia di mediazione (ne scrivono Massimo Cacciari, Gigi Riva e Gastone Breccia).

 

Gli Inascoltati sono fastidiosi perché deboli e ancora di più perché giovani, non hanno canali di rappresentanza per farsi sentire, perché i movimenti sono fiumi carsici che tornano subito sommersi e i partiti non esistono più come strumento per far risuonare una voce collettiva: generazioni diverse, interessi diversi, territori diversi, uniti in un progetto comune.

 

Gli attuali partiti lavorano frammento per frammento. Un ritorno alla legge elettorale proporzionale senza altre misure (per esempio, una forma di finanziamento pubblico) significherebbe l’apoteosi del formicaio e non lascerebbe alternative alla riconferma di Mario Draghi a premier anche nella prossima legislatura. Il Pd di Enrico Letta si sta rivelando un campione mondiale nella specialità del finto morto, trattiene il respiro perché nessuno possa accorgersi della sua esistenza, vince senza combattere, per l’insipienza degli avversari. Ma non intercetta le esigenze vive della società, come quelle espresse da Elly Schlein anche nel suo ultimo libro (l’intervista Susanna Turco). E invece la priorità è ricostruire, riaprire le porte di un sistema asfittico. Dopo due anni di pandemia è questa l’emergenza. Inascoltata.