L’inchiesta
Soldi pubblici e monopolio sui tamponi: la lobby delle farmacie è diventa più ricca col Covid-19
Il potere di una delle corporazioni più forti d’Italia aumenta con la pandemia: grazie ai parlamentari amici è stata evitata la concorrenza delle parafarmacie e c’è stato l’ok a un progetto del Pnrr da 100 milioni. E poi quasi 300 milioni di rimborsi statali
Al campionato italiano delle corporazioni le farmacie non perdono mai. E da decenni. Ogni volta che rischiano di dover rinunciare a un’oncia di fatturato o di privilegio, ne escono rafforzate. La politica si scusa per i pensieri così spregevoli e le rimborsa, le tutela, le supporta. È successo anche con la pandemia: più compiti, più potere, più denaro.
Le farmacie hanno stravinto il duello con le parafarmacie, create dal decreto Bersani sulle liberalizzazioni (2006) e comunque obbligate alla presenza di un farmacista abilitato, e si sono riconfermate come l’interlocutore esclusivo del Sistema sanitario nazionale. Poi hanno bloccato la vendita negli esercizi commerciali dei medicinali di “fascia c”, quelli senza ricetta, scongiurando la fine del redditizio monopolio sui prezzi. E in ultimo hanno impedito che i tamponi rapidi antigenici per il green pass fossero eseguiti pure nelle 4.000 parafarmacie. Ne avrebbe guadagnato il monitoraggio delle ondate di contagi. Ne avrebbe guadagnato la pazienza del cittadino in coda. Però ne avrebbe risentito il guadagno delle farmacie. Allora da settimane in Parlamento nascono e periscono emendamenti di Leu e 5S per allargare i tamponi alle parafarmacie. Lo scorso mese si è verificato un fenomeno paranormale. La proposta di Leu e 5S è stata accolta in commissione Affari istituzionali dal relatore di Forza Italia con parere favorevole del governo, ma poi è stata bocciata dal centrodestra, e dunque da Forza Italia, con il soccorso di Italia Viva. Ancora ignote le ragioni di tale confusione politica. E non vale rintracciarle nelle avventate dichiarazioni della senatrice Annamaria Parente di Iv. Da presidente della commissione Salute non sapeva che le parafarmacie accedono alla gestione delle tessere sanitarie (per il green pass) e da qui il suo diniego. Quello che accade di buono o non accade di brutto alle farmacie viene attribuito al farmacista più noto del Parlamento: il deputato forzista Andrea Mandelli, vicepresidente di Montecitorio. Alle Camere siedono otto laureati in farmacia di cui cinque titolari di farmacia. I deputati Roberto Bagnasco (Fi), Carlo Piastra (Lega) Marcello Gemmato (Fdi) sono parecchio attivi sul tema che conoscono meglio, ma il più blasonato e influente è Mandelli. Si avverte spesso al ministero della Salute e Palazzo Chigi il tocco di Mandelli, in particolare col sottosegretario Roberto Garofoli, appena le farmacie iniziano a temere uno sgarbo.
Proprietario di un paio di farmacie a Monza (dove è stato candidato sindaco, sconfitto nel 2012) e dintorni, dal 2009 presidente dell’Ordine dei farmacisti, Mandelli si guarda bene dal prendere posizione sulla vicenda dei tamponi - «sono cose dei senatori» - e smentisce interventi sul governo, ma si lascia scappare la sua idea: «Le parafarmacie si riferiscono al ministero dello Sviluppo Economico, le farmacie al Sistema sanitario nazionale. E mi scusi, so che lo prende da titolo, anche un ciabattino potrebbe aprire una parafarmacia». Certo, però dentro ci va un farmacista. Dettagli. Come quelli che hanno permesso a Mandelli di essere rieletto nel 2021 per il quinto mandato da presidente dell’Ordine - scadenza nell’estate del 2025 - dopo che dal 2018 c’è il limite dei due mandati e di otto anni: «La legge non può essere retroattiva». Il senso dell’ironia neanche.
Annarosa Racca, presidente Federfarma
I consuntivi di fine anno affermano che la combinazione variante Omicron e imposizione del green pass ha rinvigorito i bilanci delle farmacie. Nel 2021 gli incassi dei 19.000 punti vendita disseminati in Italia sono tornati a crescere dopo un triennio di calma piatta, toccando i 24,5 miliardi di euro. L’aumento rispetto al 2020 si aggira sul 3,5 per cento e secondo i dati elaborati dalla società di analisi Iqvia almeno la metà di questo incremento si spiega con i prodotti supplementari legati alla pandemia. Nell’anno appena trascorso i tamponi hanno garantito entrate per almeno 140 milioni di euro. Di poco superiore, circa 143 milioni, è stata la spesa per guanti, mascherine e altri dispositivi di protezione. Dalle analisi si scopre che la curva dei ricavi è cresciuta con regolarità, senza grossi scossoni al rialzo, sino all’autunno dell’anno scorso. La svolta è arrivata con Omicron che ha moltiplicato la circolazione del virus e quindi anche il numero degli infetti. La nuova variante, molto più contagiosa di Delta, ha cambiato lo scenario assieme all’utilizzo diffuso del green pass. Si era aperta la caccia al tampone. Con l’Italia in fila (al freddo) e gli introiti delle farmacie che si impennavano di conseguenza: in estate i ricavi non superavano i 3-4 milioni di euro settimanali, a novembre si è arrivati a 6-7 milioni. E poi, a partire da dicembre, il giro d’affari legato ai tamponi antigenici si è impennato fino a sfiorare i 23 milioni di euro nell’ultima settimana dell’anno. A gennaio si son viste meno code, ma il protrarsi dell’emergenza ha garantito proventi aggiuntivi ai farmacisti. Nel primo mese del 2022 i ricavi alla voce tamponi hanno superato i 54 milioni di euro, una media di 13,5 milioni a settimana.
Andrea Mandelli
L’emergenza ha messo in crisi il sistema. Con milioni cittadini costretti a sottoporsi a un test per uscire dalla quarantena, oppure semplicemente per andare a lavorare, si sono moltiplicati disagi, polemiche e proteste. Per contenere l’onda di piena c’era una soluzione a portata a mano. La rete dei centri autorizzati ai tamponi avrebbe potuto essere allargata anche alle parafarmacie, più di 4.000 negozi perfettamente integrati con il Sistema sanitario nazionale per la gestione dei dati. Niente da fare. I tentativi di scalfire il muro corporativo dei farmacisti sono falliti. Non solo in Senato, dove, come detto, il 12 gennaio scorso Forza Italia e Italia Viva si sono alleati con Lega e Fratelli d’Italia per respingere l’emendamento dei Cinque Stelle. Non ha avuto miglior sorte, almeno finora, neppure una mozione analoga promossa dal Movimento in Lombardia, dove il 18 gennaio la giunta, che aveva espresso la sua contrarietà, è stata clamorosamente battuta in aula con un voto che impegnava l’esecutivo a estendere alle parafarmacie la possibilità di eseguire i tamponi antigenici. A un mese di distanza, però, l’assessorato al Welfare affidato a Letizia Moratti non ha ancora affrontato la questione. Tutto fermo pure nel Lazio, anche se l’11 febbraio il consiglio regionale ha accolto la richiesta dei Cinque Stelle che in teoria potrebbe interrompere il monopolio delle farmacie. Idee, voti e null’altro, le farmacie resistono sui tamponi in Italia con la sola eccezione delle provincie autonome di Trento e di Bolzano, le uniche in cui le parafarmacie sono autorizzate a verificare la positività al Covid. L’immobilismo è la condizione più comoda per Federfarma, l’associazione presieduta dal torinese Marco Cossolo che rappresenta gli oltre 20.000 titolari di farmacia. Una categoria che, secondo i rilievi dell’Agenzia delle Entrate, al netto delle spese ha guadagnato in media quasi 144.000 euro, il 20 per cento in più rispetto tre anni prima. Tra i professionisti soltanto i notai hanno dichiarato al fisco un reddito superiore.
All’indomani del naufragio in Senato dell’emendamento dei Cinque Stelle, i portavoce di Federfarma hanno negato qualsiasi «interferenza sulle decisioni prese in ambito parlamentare», liquidando nel merito la notizia con un «no comment». Di certo però i tamponi si sono trasformati in una straordinaria occasione di business, con margini di profitto ben superiori a quelli, già elevati, garantiti dai medicinali (con o senza obbligo di ricetta medica) e dagli altri prodotti (cosmetici, integratori alimentari, profumeria) offerti in vendita dalle farmacie. Il calcolo è presto fatto. Un test antigenico rapido costa al pubblico 15 euro per gli adulti e 8 euro per i ragazzi dai 12 ai 18 anni. La differenza tra i due prezzi viene integrata da un contributo pubblico di 7 euro. Per i farmacisti, dunque, l’incasso resta fisso a 15 euro per un tampone che all’ingrosso è stato pagato 2 euro, a volte anche meno, fino a un euro e 50 centesimi. A questa somma vanno aggiunti i costi per i dispositivi di protezione (guanti, camice e mascherina) e quelli del disinfettante. Alla fine, anche tenendo conto dell’eventuale assunzione di un infermiere addetto ai tamponi, l’importo complessivo a carico della farmacia difficilmente supera i 6 euro. A conti fatti, quindi, il margine di guadagno per ciascun tampone può arrivare a 9 euro, il 66 per cento del prezzo di vendita, che nel caso dei test per i ragazzi, è per quasi la metà a carico delle casse pubbliche. Eppure, un mese fa, nel pieno dell’emergenza, la presidente di Federfarma Lombardia, Annarosa Racca, che siede anche in consiglio comunale a Milano nei banchi della Lega, spiegava ai giornali che le farmacie «vanno in perdita, altroché profitti» con i tamponi. Un servizio, secondo Racca, che viene fornito solo perché è «strategico per uscire dalla pandemia». Ipocrisia più rapida dei tamponi.
Marco Cossolo
Per finanziare l’attività delle farmacie, con i test scontati ai ragazzi o gratuiti agli studenti, sin da luglio il governo ha emanato sei provvedimenti per un esborso complessivo di 272 milioni di euro. E d’altronde lo Stato è sempre generoso o addirittura premuroso con la lobby dei farmacisti. Ogni governo ha un ambizioso progetto per la categoria. L’ultimo governo di Silvio Berlusconi, ormai più di dieci anni fa, approvò la legge per le “farmacie dei servizi”, un modo per rendere le farmacie la sala d’attesa che introduce dal medico, una sorta di assistenza preliminare - per esempio con dei semplici esami - per non ingolfare il Sistema sanitario nazionale. Al solito i farmacisti ne furono entusiasti con la tradizionale precauzione: prima pagateci, poi proviamo. Dopo circa otto anni di ricorsi, esitazioni e protocolli, il governo gialloverde di Giuseppe Conte (2018) avviò la sperimentazione in nove regioni fino al 2020 con uno stanziamento complessivo di 38 milioni di euro. Neppure il tempo di finire la prima sperimentazione, che dovrebbe considerarsi un periodo provvisorio, che il governo giallorosso di Giuseppe Conte (2019) si precipitò a varare la seconda sperimentazione con un altro biennio e altri 50 milioni di euro coinvolgendo le regioni mancanti e raggiungendo la quota di 19.000 farmacie. E soprattutto il Conte II accluse alle norme un’ulteriore funzione: «l’accesso personalizzato ai farmaci», cioè il farmacista deve vigilare il paziente che acquista le medicine prescritte. L’Antitrust (marzo 2020) denunciò l’evidente distorsione del mercato nel suo documento di osservazioni spedito alle Camere nonché a Palazzo Chigi. Due i punti centrali: la sperimentazione non può diventare uno strumento per prendere decisioni definitive chiamandole con altro nome; se davvero l’intenzione è quella di aiutare i cittadini perché non includere nel programma le oltre 4.000 parafarmacie. «Un’apertura in questa direzione avrebbe l’effetto di aumentare», scrisse l’Autorità di garanzia, «la possibilità di concorrenza tra imprese con la diffusione di canali alternativi alle farmacie, non solo nella distribuzione dei farmaci, ma anche nella prestazione dei servizi sanitari al cittadino, a vantaggio del pubblico degli utenti e nel rispetto del diritto fondamentale alla salute». Questioni di sensibilità. Quell’attitudine che non manca ai governi se riguarda le farmacie. Su sollecitazione di Mara Carfagna, ministro per il Sud e collega di partito dell’onorevole Mandelli, il governo ha organizzato un bando da 100 milioni di euro per le farmacie rurali con i prestiti e i rimborsi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In Italia si definiscono rurali le farmacie che si trovano in comuni con meno di 5.000 abitanti, ne sono censite 6.700 (un terzo) e servono 10 milioni di cittadini. E 4.200 su 6.700 sono le farmacie rurali “sussidiate” che operano in piccoli centri con meno di 3.000 abitanti e ricevono contribuiti regionali.
Rispetto agli incassi milionari delle farmacie cittadine, le farmacie rurali sussidiate “lamentano” fatturati pari in medi a circa 385.000 euro annui (più delle parafarmacie) e perciò necessitano di continui finanziamenti pubblici. Siccome queste farmacie sono considerate anche «il primo presidio sanitario di prossimità», senza distinguere quelle dei sobborghi e quelle di montagna, il ministero della Salute di Roberto Speranza ha vidimato in gran fretta un decreto ministeriale per un fondo di 10 milioni per la telemedicina e poi ha sostenuto il bando del Pnrr. In sostanza le farmacie rurali sussidiate possono ottenere 44.250 euro ciascuna per coprire due terzi della spesa di qualsiasi tipologia per ammodernare la sede. Aiutare i più forti è uno sport nazionale. E le farmacie sono la corporazione campione d’Italia.