Editoriale
Il Paese in cerca di un ordine
La democrazia vive in emergenza da trent’anni. Crollati i partiti, niente li ha sostituti. E ora un sistema senza perno si aggrappa a Sergio Mattarella
Emergenza. Giorni difficili. Senso del dovere. Imposizione. Sono severe e gravi, per nulla trionfalistiche, valgono un silenzioso giudizio durissimo, le parole scelte da Sergio Mattarella al momento di accettare la rielezione a presidente della Repubblica che aveva sempre esorcizzato per motivi personali e costituzionali. Parole drammatiche, come quelle di un anno fa, quando il capo dello Stato aveva affidato a Mario Draghi la guida del governo di unità nazionale per fronteggiare la doppia emergenza, sanitaria e economico-sociale. A queste, nel voto per il successore di Mattarella che si è capovolto in un quasi plebiscito per la sua riconferma, si è aggiunta l’emergenza politico-istituzionale che rende fragile la democrazia italiana.
Emergenza è una parola chiave del lessico politico italiano. «Io credo alla emergenza, io temo l’emergenza», diceva Aldo Moro nel suo ultimo discorso, il 26 febbraio 1978, nello stesso luogo in cui, una settimana fa, il parolaio verde Matteo Salvini ha bruciato una decina di candidati al Quirinale con le sue improvvide conferenze stampa. Non è un’emergenza qualcosa che dura da decenni, se è così l’emergenza diventa permanente. La nostra emergenza permanente è l’assenza di un principio d’ordine del sistema politico che va avanti da decenni. Si può datare l’inizio con l’inchiesta Mani Pulite, data ufficiale di partenza il 17 febbraio 1992 a Milano in un bagno della Baggina, il colpo di sciacquone con cui Mario Chiesa, manager in quota partito socialista, provò a far sparire nel water una tangente da trenta milioni di lire. Vero o inventato che fosse - Chiesa ha sempre negato quella goffa azione di occultamento delle prove - quello scarico ha rappresentato lo sparo di Sarajevo da cui è partita la guerra che ha portato alla dissoluzione gli Imperi centrali dei partiti: la Dc, il Psi, il Pci che si era sciolto un anno prima dopo il crollo del muro di Berlino.
Il sistema dei partiti era il principio d’ordine che si era data la Repubblica fin dalla sua fondazione. Legge elettorale proporzionale, ruolo centrale del Parlamento, governi deboli, leadership collegiali decise nelle consultazioni chiamate congressi che decidevano le classi dirigenti e le svolte politiche. Quel modello entrò in crisi nel cuore degli anni Settanta. Non solo il sangue e il piombo del terrorismo rosso e nero, in quel decennio emerse anche il nuovo protagonismo della società civile: le donne, i giovani, le piccole imprese, le associazioni di cittadinanza, il rapido mutamento delle famiglie e del lavoro, le due strutture sui cui si era fondata per decenni, se non per secoli, la stabilità esistenziale ma anche la condanna all’immobilismo delle generazioni precedenti e che invece uscivano terremotate dalla grande trasformazione sociale, erano i segni più visibili del cambiamento e della richiesta di nuovi diritti sociali e civili e di nuove forme di rappresentanza. Franava, infine, la logica di schieramento internazionale, l’eredità di Jalta con la divisione del mondo tra atlantici e sovietici: per l’Italia il fattore K era stato il collante delle maggioranze di governo, con il partito egemone, la Dc partito-Stato a svolgere una funzione di asse e di mediazione.
Il principio d’ordine rappresentato dai partiti è venuto giù lentamente ed è andato come una grande slavina (Luciano Cafagna) nel 1992-93, mentre cresceva la domanda di uno Stato leggero, meno invasivo nella vita dei cittadini e nell’economia, e di un sistema istituzionale che restituisse agli elettori il potere di scegliere le maggioranze di governo e i rappresentanti nelle assemblee legislative. Bipolarismo e sistema maggioritario, democrazia dell’alternanza, erano le parole d’ordine con cui gli italiani votarono a grande maggioranza per i referendum promossi da Mario Segni il 18 aprile 1993, una data fortemente simbolica perché con il voto in un altro 18 aprile, nel 1948, la Dc aveva cominciato la sua lunga stagione di predominio e gli italiani avevano scelto la collocazione dell’Italia nell’Occidente e nella costruzione della nuova Europa. Quel giorno fu abolito anche il finanziamento pubblico dei partiti, con oltre il 90 per cento dei voti. Una scelta che oggi possiamo vedere come contraddittoria con la volontà di costruire un sistema maggioritario. Perché nasceva la democrazia dell’alternanza, ma senza i soggetti politici, i partiti o le coalizioni, che avrebbero dovuto far camminare quel progetto nella società. E in quel vuoto si sarebbero infilati imprenditori televisivi, ex magistrati, comici, tutto quello che abbiamo visto nel trentennio successivo.
Di quella stagione conosciamo bene i protagonisti di primo piano, ma non alcune figure di sfondo. Draghi era il direttore generale del ministero del Tesoro, curò i processi di privatizzazione. La nuova legge elettorale maggioritaria, ma con una quota proporzionale del venticinque per cento dei seggi, fu tenuta a battesimo parlamentare con il relatore Sergio Mattarella: il Mattarellum.
Tutto questo non è bastato a costruire un nuovo principio d’ordine, cesellato invece sulla base di nuove antinomie. Berlusconismo e anti-berlusconismo. E poi, politica e anti-politica. E ancora: sovranisti e anti-sovranisti. Categorie fragili ed effimere, perché basate su una contrapposizione, ma anche perché inesistenti come culture politiche, progetti di governo, senza un’idea di Paese e di Europa.
L’unico principio d’ordine che il sistema è riuscito a trovare è un presidenzialismo di fatto, fondato ora sul premier-capo della coalizione elettorale, come recitava la legge elettorale del 2005, il Porcellum, o sul sindaco d’Italia vagheggiato da Matteo Renzi nel 2016, ora sul presidente della Repubblica, come accaduto negli ultimi due decenni e con questa rielezione di Mattarella che trasforma l’eccezione della riconferma di Giorgio Napolitano nel 2013 in regola, l’emergenza in stato permanente.
Il Presidente principio d’ordine. E i governi del presidente, di sua emanazione, come il governo Draghi. I partiti, ridotti in quasi tutti i casi a compagnie di ventura, si sono riparati sotto l’ombrello protettivo di Mattarella per evitare il discredito, il disastro. Alcune leadership sono uscite dalla prova a pezzi: Matteo Salvini, Giuseppe Conte. Altre sono miracolosamente sopravvissute, il segretario del Pd Enrico Letta vive da giorni con l’allegria del naufrago, il sopravvissuto, lo scampato. E avanzano verso il prossimo appuntamento, la fine della legislatura, l’appuntamento con le elezioni politiche del 2023, con tutti i nodi irrisolti: identità culturale, organizzazione sui territori, classe dirigente diffusa, sistema di alleanze. Il caos in cui convivono, pericolosamente, la richiesta di tornare alla legge proporzionale, ovvero la fotografia del polverone, del pulviscolo politico che sono questi partiti con le loro correnti, e la fuga in avanti dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, ma con quali poteri e quali contrappesi non si sa. Il mix delle due soluzioni sarebbe il colpo finale.
Eppure un principio d’ordine serve, l’unico finora individuato è la figura del presidente della Repubblica e la persona che ha già occupato la carica e che la occuperà fino al 2029, una presidenza lunghissima, la più lunga della storia. Sergio Mattarella. Tocca a lui, erede di una cultura politica misconosciuta e poco raccontata, il cattolicesimo democratico, che ha trovato casa nella Dc ma non solo. «Lei appartiene a quel tipo di persone verso cui va la mia più grande fiducia: i democristiani di sinistra, di estrema sinistra. Io spero che non tradiate mai le vostre posizioni di idealismo giovanile, di democratico rapporto con gli avversari. Siete l’unica speranza di questa nazione condannata a decenni di clericalismo», scriveva nel 1959 Pier Paolo Pasolini a Mario Visani, un giovane di Borgo Tossignano in provincia di Bologna.
Il cattolicesimo democratico è una sintesi, è insieme cultura del rispetto delle istituzioni e attenzione ai movimenti reali nella società: ne fanno parte al tempo stesso Leopoldo Elia, Beniamino Andreatta. Pietro Scoppola, ma anche Giuseppe Dossetti, Ermanno Gorrieri, Tina Anselmi, David Sassoli. Una cultura politica alternativa al populismo, ma anche a un’idea statica, soffocante delle istituzioni repubblicane, quell’idea per cui la democrazia è una bestia da domare, una parentesi da chiudere al più presto per lasciar governare gli spiriti illuminati, le élites globali. Al contrario, il cattolico democratico crede che la democrazia sia un processo, una tensione nella storia, non è mai una conquista una volta per tutte.
Di questa tradizione Mattarella è l’erede e il punto di sintesi. Per sette anni Mattarella ha incarnato l’istituzione, da difendere, da custodire, ma anche l’attenzione alla società in tutte le sue pieghe. L’idea di un Paese in cui i nuovi italiani siano riconosciuti e non soltanto accolti e integrati e in cui gli studenti che protestano per l’ingiustizia della loro condizione non vengano presi a manganellate dalla polizia.
La cultura cattolico-democratica fu riformista e innovativa nella prima parte della Repubblica dei partiti e fu al contrario paralizzante e immobile nella fase finale della Prima Repubblica, quando non colse che quel sistema stava finendo. Sarebbe un destino beffardo se la presidenza di Mattarella dovesse seguire lo stesso percorso: inclusiva durante il primo mandato, vissuta come un anestetico nel secondo mandato da una classe politica desiderosa soltanto di sopravvivere a se stessa. Una presidenza interpretata dai soggetti politici come un congelamento della situazione - congelare Draghi, congelare i leader - sarebbe un tradimento delle attese e delle speranze degli italiani cui ha fatto riferimento Mattarella nelle sue prime parole dopo la rielezione. La società italiana non chiede di essere addormentata o sopita, ma risvegliata.
In coincidenza con il secondo giuramento di Mattarella nell’aula di Montecitorio, il 3 febbraio, compie un secolo di vita, cento anni, un italiano normale e insieme speciale. Giorgio Allori, nato il 4 febbraio 2022, i lettori dell’Espresso lo hanno conosciuto nel 2020 quando raccontò la sua storia incredibile di sottufficiale catturato dai tedeschi l’8 settembre 1943 e deportato nei campi di prigionia, il rifiuto di tradire la Patria per abbracciare il fantoccio fascista della Repubblica di Salò, la professione di fedeltà alla bandiera in una baracca su un tricolore lacerato e conservato a brandelli. Quando Giorgia Meloni parla di patrioti dovrebbe conoscere il generale Allori. Ho sentito Giorgio per gli auguri in questo giorno importante e gli ho chiesto come ha seguito le elezioni presidenziali. «Un teatro di burattini, come quello di Pinocchio», ha scosso la testa con il suo accento toscano, ma senza cattiveria. Forse l’Italia per cui ha lottato non è pienamente quella che si aspettava, ma nella sua lunga vita si riassumono le attese e le speranze di tutti. Che il presidente Mattarella le ascolti. Alla ricerca di un nuovo principio d’ordine che consenta di risolvere l’emergenza democratica.