L’ennesima capriola sulla via di Damasco (o di Montecitorio) dell’ex leader padano apre interrogativi sul possibile ritorno della Balena Bianca

Matteo Salvini che, nel giorno dell’apertura di Sanremo, sostiene di non avere nulla a che fare con Giorgia Meloni, avrebbe potuto tranquillamente fare da spalla comica ad Amadeus per tutta la durata del Festival. C’entra così poco che in tutto, dalla comunicazione ai bersagli, dalle battute studiate al movimento social diventato messaggio politico, sono quasi sovrapponibili. Con l’importante differenza che la Storia politica meloniana, non quella recente, quella più “granitica” (cit.) possiedono almeno il bene dell’autenticità. Mentre quella del segretario leghista è sempre stata una parabola da orecchiante.

 

Prima comunista, poi secessionista, poi nazionalista, quindi estremista, ora “moderato”. La memoria italica dei comportamenti, in presenza di una fiducia fideistica, non solo perdona il trasformismo ma, dagli albori della democrazia, o anche più indietro, dai tempi dell’Antica Roma, così simili a quelli della Nuova Padania, lo premia. Così, probabilmente, quella salviniana sarà l’ennesima capriola sulla via di Damasco, o di Montecitorio, che servirà alla bisogna. E l’ancoraggio a Berlusconi, che incredibilmente dà ancora un bel po’ di carte, lo salverà dalla deriva autodistruttiva del dopo Quirinale. Ma il punto non è questo. È l’approdo ultimo del percorso speculativo.

 

Cioè, appunto, il moderatismo. O, per dirla col solito posto delle fregole, il grande centro. Dove, com’è noto, ci sono i ristoranti migliori. Che, dopo aver titillato ogni genere di basso istinto, anche il segretario leghista si appropinqui al buco bianco della politica italiana, strappa un sorriso e una preoccupazione: troverà un tavolo? Stretto com’è tra Cambiamo, Azione, Coraggio Italia, Forza Italia, Italia Viva, Napoli secondo estratto X, gli riuscirà di sistemarsi sul predellino del cosiddetto Partito Repubblicano, che peraltro esisterebbe ancora, e rischia di chiedergli la Siae?

 

Avendo per questioni anagrafiche vissuto solo una parte dell’epopea democristiana, compresa la dissoluzione, verso i primi Novanta, quando solo a sentire la parola “proporzionale” la gente preparava i forconi, fatico a comprendere se davvero la vecchia Dc, col suo campo che andava da Dossetti a Salvo Lima, da Moro a Remo Gaspari, dalla santità al demonio, possa davvero coincidere con questa nebulosa in cui ogni partito ha un nome, una faccia, un personalismo da titillare, naturalmente nel nome dell’interesse pubblico. Non so cioè se Renzi somigli a Fanfani, se Calenda ricordi Forlani, se Toti, Brugnaro e compagnia cantante possano, tutti insieme, avvicinare un’unghia dell’andreottismo.

 

Però, per capire se davvero siamo alla riedizione di una balena bianca, proprio il riavvicinamento del Capitone rischia di essere epifanico: se riuscirà a scalare il Grande Centro, partendo dal Papeete, avremo contezza di una mutazione genetica, una variante Delta, che di quella Dc contiene principalmente la spregiudicatezza. Se invece il Centro sceglierà l’usato sicuro alla Casini, federandosi con Forza Italia, in attesa di rotolare lentamente verso il Campo Largo di Letta, tra un annetto circa, torneremo d’incanto al ’48. Con i “comunisti” a garantire stabilità, come fanno da un’ottantina d’anni incassando più contumelie che voti, mentre governano altri. Buona attesa.