Intervista
Lo sguardo caustico di Giorgio Montefoschi: «Italo Calvino, scrittore furbo e sopravvalutato»
«I critici non esistono più». «Donne scrittrici italiane oggi non ne vedo nessuna, mentre Fabrizia Ramondino è stata vergognosamente ignorata». «Giovani italiani dico Mencarelli». Intervista a tutto campo allo scrittore autore di un nuovo romanzo sui segreti e le ombre della vita borghese
Il diciannovesimo romanzo di Giorgio Montefoschi s’intitola “Dell’anima non mi importa” (La nave di Teseo, pp. 320, euro 20). Come sempre, è una storia di amore, tradimento, morte e sogno d’immortalità. Come sempre, è ambientato a Roma e principalmente fra le strade dei Parioli, stavolta quelle solitarie, verdi e ombrose che uniscono viale Bruno Buozzi e via Aldrovandi. Le stagioni si alternano, le cicale lasciano spazio alle urla dello zoo, lo stridio della circolare si confonde con il rumore che taglia il petto dei due protagonisti, Enrico e Carla Rubbiani, e di loro figlia, Maddalena. Il libro esce mentre un freddo glaciale è sceso su Roma, così, anziché incontrarci davanti al villino di via Mercati che è il centro della storia, ci vediamo al Cigno, uno dei bar più classici di questo quartiere dalla storia breve, ma ben più complessa di quanto ormai sembra raccontare il nome.
«Sono nato ai Parioli, ma questo non significa essere pariolino. Io scrivo di queste strade perché è il mondo che conosco meglio. Gli scrittori devono muoversi nei luoghi loro propri. Chi si maschera da operaio o va a salvare i profughi afghani o ambienta una storia in Bosnia mette il cappello su qualcosa che non gli appartiene. E quel che scrive suona falso. Come gli scrittori americani a Roma. Una città che sembra sempre finta. La verità è che siamo tutti condannati alla nostra prigione».
Ma c’è anche un ideale poetico della ripetizione? Lei ha parlato spesso del pittore che dipinge sempre la stessa tela.
«Per me significa soprattutto rimanere in confini fisici e psicologici che non ho ancora finito di esplorare. C’è una panchina del parco dei Daini in cui credo di aver ambientato almeno quindici scene dei miei romanzi. È sempre la stessa panchina, radicata in un punto preciso del cosmo, sempre quello. Ma certo ogni volta capita qualcosa di diverso».
E stavolta qual è il tratto che distingue la tela che la ossessiona?
«Il tradimento femminile. Il desiderio della protagonista di esplorare una dimensione sconosciuta. E dunque quel che dice il titolo: la frase di un dialogo in cui è chiaro l’interesse di questa donna, un interesse dominato però dalla paura».
Anche in “Dell’anima non m’importa” lei si attiene rigorosamente al principio dell’omissione quando si tratta di raccontare i traumi. Sta arrivando il litigio, la morte, il dramma e lei si ferma. Riprende il racconto a cose fatte.
«Forse è pudore. Forse è incapacità di accostarmi con i miei sentimenti a momenti così drammatici. Certo sono convinto che il non detto per il lettore ha una forza ineguagliabile. Però che vuole che le dica? Forse non ho coraggio. Eppoi di certe cose ho orrore, come del trapasso. Non ne voglio sapere».
Si tratta anche di un libro molto metaletterario. Due grandi scrittori dominano la scena: Lawrence Durrell e Thomas Mann.
«È tutto ciò che mi è mancato. La fortuna di vivere una ricchezza estrema di eventi e incontri come accadeva nell’Alessandria d’Egitto di Durrell. E il passo sicuro del grande narratore neoclassico che ha Mann. Quanto al primo, ho sofferto di un impedimento domestico e cronologico. Nella mia vita non è accaduto nulla di eclatante. Quanto al secondo, il passo di Mann è ineguagliabile. Parlo soprattutto della Montagna incantata».
Lei era considerato l’erede di Moravia.
«Ma proprio per niente. Un uomo con me sempre gentile e attento verso cui ho avuto grande stima e rispetto. Ma non sento in alcun modo la sua influenza. Se ne parlava per via di Roma? Per la borghesia? Ma anche questa storia dello scrittore borghese, ma che palle! No, io mi sento molto vicino a Bassani, scrittore unico. Molto poco ricordato, peraltro. E parlo dell’Airone più che dei Finzi Contini. Un libro che oggi non leggerebbe nessuno. Forse non troverebbe neppure un editore».
Quindi è stato Bassani a influenzarla di più?
«Grazie al cielo delle influenze ti rendi conto dopo. Le strade che prendono sono complesse. Sono stato molto amico di Elsa Morante, ma certo non l’ho emulata in alcun modo. No, io mi sento vicino a Bassani. E a Parise. Ma non ho mai inseguito modelli».
Non ha modelli neppure quando comincia un nuovo libro?
«Io inizio da un’atmosfera. Mi appunto immagini su quaderni molto rigidi comprati in un tabaccaio di Madurai, accanto al grande tempio. Immagini di un ambiente borghese stantio che in genere viene messo in crisi dalla figura di uno sconosciuto. Un salvatore. Ma stavolta non arriva nessun salvatore».
Però c’è una figlia molto determinata.
«È mia figlia. Finalmente ha un’età tale che mi ha permesso di raccontarla com’era quando era ragazzina. Non avrei potuto farlo a quell’età. C’era troppa vicinanza. Così come c’è troppa vicinanza con suo figlio Pietro che io adoro e che da quattro anni, per via di un incidente, è invalido. Sono troppo coinvolto. Ho bisogno di sicurezza psicologica per non sbagliare. Provo qualcosa di così profondo per lui che non lo vedo: non vorrei scrivere qualcosa di cui fra dieci anni mi pentirei».
Lei ha anche un figlio.
«Avvocato penalista. Ne vede di tutti i colori. Eppure non ammette l’esistenza del male. Mi dice: papà domani vado fuori Roma da un cliente, una splendida persona, non hai idea! Io allora gli chiedo cosa abbia fatto per finire in galera e lui mi dice: ha ucciso la moglie, l’ha fatta a pezzi e l’ha bruciata. Ma insomma, faccio io, ma come? No, papà, ma sai… Ecco, lui riesce a vedere la splendida persona anche lì. Lo invidio. Però il male esiste eccome».
Nel suo libro il male lo combattono le donne. Dicono che lei racconta meglio le donne degli uomini.
«Forse è così. Sa, io le conosco poco, alla fine. E probabilmente è meglio raccontare ciò che vuoi conoscere rispetto a ciò che credi di conoscere».
C’è speranza nell’epilogo della storia che racconta.
«Sì, la speranza di una ragazzina che è diventata donna e si fa madre della propria madre. Come è capitato a me con un padre fragile di cui ho dovuto farmi padre. Mi è costato enorme fatica».
La nave di Teseo sta ripubblicando tutti i suoi romanzi. A quali tiene di più?
«Io non so mai se ho scritto un buon libro. Adesso pare che tutti sappiano se hanno chiuso un capolavoro. Io tengo sempre di più all’ultimo».
Mi dica i cinque scrittori decisivi del Novecento.
«Gadda su tutti. Elsa Morante, Landolfi. Parise e Bassani già li ho nominati».
E stranieri?
«Proust. Poi Mann, il sublime Musil, Durrell e Lowry».
E oggi?
«Javier Marías e Pamuk. Verso Pamuk nutro un’invidia enorme, ma un’invidia sana, buona. Che scrittore!».
Giovani italiani?
«Mencarelli. “Tutto chiede salvezza” mi era piaciuto molto. Ha una bella e lunga strada davanti».
Scrittrici?
«Nessuna. È una cavalcata delle Valchirie».
In che senso?
«Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?».
Grandi sopravvalutati?
«Calvino. Uno scrittore furbo. Maneggiava Einaudi e il PCI così da avere un enorme potere. Potere che ha esercitato fino in fondo. Scriveva bene, per carità. Ma non basta scrivere bene».
Grandi sottovalutati?
«Fabrizia Ramondino. Scrittrice straordinaria. Una vergogna che non abbia avuto neanche un po’ dei riconoscimenti che meritava».
E i critici?
«Non esistono più. E dire che fino all’altro ieri ce n’erano di grandi. Mettevano in soggezione. Si aveva una sacra paura del loro giudizio. Io, quando mi dissero che Geno Pampaloni stava per pubblicare una critica a un mio romanzo, finii a letto con la febbre. C’erano Garboli, Alfredo Giuliani, il primo Citati. Oggi è tutto finito. Qualcuno ancora esercita la critica, ma solo su rivistine. Per il resto ci sono soltanto laudatores».
Come ha vissuto in questo periodo così particolare?
«Io, personalmente, la pandemia l’ho vissuta benissimo. Sono stato fortunato e ho approfittato di questa lontananza. Certo, seguendo ciò che accadeva ho provato un accoramento enorme verso chi ha sofferto. Grande commozione per chi ha combattuto, medici e infermieri. E assoluto sdegno verso i no vax».
Come è cambiato il Paese?
«Non mi piace nulla. La politica non esiste più. Gli ideali sono morti. E al tempo stesso adesso che si parla di ritorno della politica mi vengono i sudori freddi. La sciagura dei 5 Stelle non ha fine».
Lei era un sostenitore di Renzi.
«Continua a intrigarmi. Nonostante si sia rovinato con le sue mani, ha ancora intuizione politica. Lo ha dimostrato con la spregiudicatezza che gli è servita per mandare a casa prima Salvini e dopo Conte».
Mi pare che non apprezzi granché questo Pontefice.
«Ma no, come si fa a dirlo? Però trovo che sia più che altro un buon parroco. Un uomo affettuoso che non parla mai del mistero. Per dire di non rubare e non mentire non c’è bisogno di un Papa. È troppo legato al contingente, per quel che mi riguarda. E infatti è molto amato dai non credenti. Elimina tutte le questioni irrazionali».
Che a lei sono care.
«Io sono un credente che non crede a nulla. Mi atterrisce che tutto possa finire. Qualcosa deve esserci. Ma io, come ho raccontato nel libro, tengo all’immortalità individuale. Io voglio stare con mia moglie, voglio incontrare Napoleone, Tutankhamon. La vita che viviamo è un dono così bello che non può finire».
Sono molto apprezzati certi suoi racconti in cui protagonisti sono i ragazzi. Non ha pensato a scrivere un libro esclusivamente ambientato in quell’età?
«Lo farò quando sarò vecchissimo».
Lei ha rimpianti?
«Diciamo che ci sono state tante ragazze che mi sarebbero piaciute».