Intervista
«Questa crisi politica non è un dramma: è un’occasione. Ora possiamo rifondare e ricostruire»
Le istituzioni alla fine hanno retto, ma è il ceto politico a essere inadeguato. Ma ora con la riduzione del numero dei Parlamentari c’è la possibilità di fare una selezione di qualità. La ricetta di Mario Tronti un grande vecchio della sinistra
Ho seguito da cronista tutte le elezioni presidenziali dal 1985. È netto il ricordo di quelle drammatiche del 1992, quando facevo la spola tra la polvere rossa e l’odore ferrigno di Capaci e le aule di Montecitorio dove, silurato Giulio Andreotti dall’assassinio di Salvo Lima, bruciato Arnaldo Forlani, illuso Giovanni Spadolini, il sistema politico si avvitava in una crisi da cui poi uscì con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro, anche allora imposto dal parlamento a partiti finiti e leader sbandati. Allora, però, vivevamo una tragedia greca, oggi una commedia del teatro dell’assurdo dove, come recitano i dizionari di teatro, si svolgono «situazioni e dialoghi surreali, costituiti da squarci di quotidianità scomposti e rimontati in modo da creare un effetto comico e tragico al tempo stesso… Si capovolge ogni criterio di verosimiglianza e di realtà».
In diretta televisiva e social si è determinato un corto circuito tra le procedure democratiche, apparse barocche e inconcludenti dinnanzi all’immediatezza della politica populista: nomi gettati nella mischia e bruciati in pochi secondi, candidate brutalmente strumentalizzate, hashtag lanciati nel nulla. Così la tragedia diventa farsa con due blitzkrieg populisti finiti in clamorosi harakiri: quando Matteo Salvini lancia contro il muro la seconda carica dello stato, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati; oppure quando Giuseppe Conte, in un nuovo asse giallo-verde che ha coinvolto anche qualche corrente del Pd, brucia nel falò narcisista di un politico “adultescente” (rubiamo il termine al professor Massimo Ammaniti) anche delicati ruoli istituzionali, come quello di Elisabetta Belloni, capo dei Servizi segreti.
Mario Tronti, filosofo militante, uomo di sinistra, ( “La saggezza della lotta”, Derive/Approdi, il suo ultimo libro, una sorta di lettera agli amici in occasione dei 90 anni compiuti lo scorso luglio) aveva preso con l’Espresso l’impegno a commentare il Big Game Quirinale, ed eccoci qua. L’esordio è a sorpresa ottimista: «C’è una buona occasione per una svolta decisa», anche se «è dubbio se si sarà in grado di afferrarla. Ma il guasto viene da lontano, diciamo, da almeno tre decenni di egemonia antipolitica, sfociata nel devastante voto del 2018».
Professor Tronti, in un’intervista in un volume di scritti dedicato a lei, (“La rivoluzione in esilio”, Quodlibet) sostiene che «conoscere il nemico meglio di quanto il nemico conosca sé stesso è un’obbligazione politica». In fondo l’elezione per il Quirinale è in qualche modo paragonabile a una guerra. Secondo le regole dell’Arte della Guerra di Sun Tzu, come giudica quanto accaduto?
«Veramente, abbiamo assistito più alla tecnica della guerriglia che all’arte della guerra. Non si sono mossi gli eserciti, cioè le forze politiche, piuttosto è stata messa in atto una teoria del partigiano, con combattenti “irregolari”, tra sortite, ritirate e imboscate. Vorrei dire solo di Letta, a ragione considerato “the winner”, per aver raggiunto quel che riteneva il massimo, e di cui ho apprezzato l’applicazione di regole dell’arte della guerra orientale, come quella di piegarsi all’indietro in risposta all’urto dell’avversario, in modo da fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere a terra. Ma, ormai a distanza di giorni, conviene ragionare non tanto su quanto potrebbe accadere, ma su quanto sarebbe necessario fare. La vicenda Quirinale ci ha riservato l’ultima sorpresa di questa scriteriata legislatura, dove ci è capitato di vedere di tutto. In questo caso, la sorpresa può considerarsi positiva».
Al di là dei leader, come ne esce il sistema politico nel suo complesso?
«Non so se siamo a una crisi di sistema politico. Preferirei parlare di una crisi di ceto politico, di decisione politica. In fondo le istituzioni hanno retto. Perfino il Parlamento, perennemente sotto accusa, alla fine ha trovato la strada giusta. La Presidenza della Repubblica ha mantenuto e mantiene un sicuro ruolo di garanzia. Il governo ha sbandato in questi anni ma, alla fine, si è riassestato con alla guida una personalità, come si dice oggi, di alto profilo. Io parlerei piuttosto di una crisi antropologica della politica. Si riparla giustamente di trovare rimedi a quel tipo degenerato di trasformismo che ha visto troppi indecenti cambi di casacca, con il gruppo misto diventato uno dei gruppi parlamentari più numerosi. Ma non basta cercare i rimedi nei regolamenti parlamentari. C’è un enorme problema di selezione del ceto politico. C’è ora l’opportunità di un numero molto ridotto dei rappresentanti. Diventa più facile un rigoroso criterio di scelta delle personalità adatte al ruolo. Non si può fare con l’uno vale uno di un clic sul web. Ma non si può fare nemmeno con la tenda delle primarie, aperta più che ai militanti, ai passanti».
Lei dice che all’ombra dei due garanti, Mattarella e Draghi, i partiti dovrebbero rifondarsi e rigenerare così l’offerta politica?
«Riqualificare la rappresentanza, per questa via rilegittimare la politica, risanare il sottobosco paludoso degli umori anti-Palazzo, questi sono i compiti più urgenti. Il governo Draghi ha un tempo difficile davanti a sé. Ha i suoi e nostri problemi quotidiani da risolvere. Speriamo nel rallentamento della pandemia per la messa a terra delle riforme richieste per l’utilizzo delle risorse europee: e questo in un anno che precipiterà verso un confronto elettorale decisivo. C’è, di lato, ma centrale, l’altra urgenza di una grande riforma dei partiti, cioè dell’offerta politica al paese. Questa non è materia di governo, ma delle forze politiche, che proprio nella guida tecnica dell’esecutivo possono e devono trovare il tempo e lo spazio per ripensare sé stesse. Tutte».
Lei ritiene che questi partiti ne siano capaci?
«Contro tutte le evidenze che anche quest’ultimo passaggio ha impietosamente mostrato, io continuo a credere una possibile restaurazione - uso questo termine nella sua accezione storica - del partito come forma politica. Non mi accodo ai ricorrenti funerali della forma-partito, né alla ripetuta geremiade sul fallimento della politica. Bisognerebbe rinominare con più chiarezza e comprensibilità le diverse postazioni. Queste nominazioni, centrodestra centrosinistra, non dicono più niente. Trovo interessante, da parte di Fratelli d’Italia, il coraggio di dirsi “conservatori”: una nobile sigla di tutta una tradizione politica. Così prenderebbe senso, finalmente, il contrasto di un fronte detto dei “progressisti”, un nome che non amo se non, appunto, come termine di conflitto. Il che non esclude una postazione di centro, che non si riconosce né nell’uno né nell’altro, o magari tiene un po’ dell’uno e un po’ dell’altro: cosa che nel nostro paese ha sostanziosi precedenti L’essenziale è che risulti netto il confine tra destra e sinistra. Netto nei progetti, nei programmi, nei pensieri, nei linguaggi, nella identità, appunto, dei rappresentanti e dei gruppi dirigenti. In questo il Pd potrebbe assumere una essenziale funzione di apripista, mettendo in moto un processo di radicale rigenerazione della cosa pubblica, nell’applicazione integrale dell’art. 49 della Costituzione, dove ai cittadini che vogliono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale viene riconosciuto il diritto di associarsi in partiti. Ho un sogno: che questo diritto assuma la forma di un dovere. Ma i doveri non si riconoscono, si assumono. Allora, per questo risultato ci sarebbe un lavoro di lunga lena da caricarsi sulle spalle. E qui, il mio pessimismo antropologico mi suggerisce niente più che disperate speranze».
Molti pensano che da questa situazione si possa uscire solo con una riforma presidenzialista. Che ne pensa?
«Due premesse. La prima: nella condizione attuale di disorientamento politico di massa, coltivo una forte diffidenza verso ogni forma di verticalizzazione del voto, quel direttismo, come si dice oggi, che nulla ha a che vedere con quella categoria politica seria che è la democrazia diretta. La seconda: se ne può parlare non nel senso di un presidenzialismo all’americana, semmai di un semipresidenzialismo alla francese. Con la condizione che non basterebbe una riforma istituzionale, ci vorrebbe la riscrittura di una Costituzione, per le ragioni che ha ben detto Giuliano Amato con la metafora dell’orologio e delle rotelle che si devono incastrare tra loro. Sarebbe necessaria un’Assemblea Costituente e non so se ce la possiamo permettere, ripeto con tutti i problemi aperti da risolvere nell’economia, nella società, nell’apparato dell’amministrazione, nel funzionamento della magistratura. Comunque vedo una soluzione semipresidenzialista né adatta né opportuna per il nostro Paese. Il modello più vicino al nostro rimane quello tedesco: un regime parlamentare con due partiti a vocazione maggioritaria, leadership non più di tanto personalizzate, regola della sfiducia costruttiva, una struttura federale magari con ridisegno di macroregioni, una legge elettorale proporzionale con forte sbarramento, Corte costituzionale di controllo, Presidente della Repubblica di garanzia. Le paure, o le speranze, di un presidenzialismo di fatto, come le suggestioni retrò del sindaco d’Italia le lascerei alla polvere del tempo, presente e passato».