Politica
7 febbraio, 2022

Sergio Mattarella e quella cultura del cattolicesimo democratico (ignorata dagli analisti politici)

Il Presidente è l’erede di una lunga tradizione animata da nomi illustri che mette al centro diritti civili, politici e sociali

Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica. È il frutto di una scelta maturata dal basso, voluta dai grandi elettori sensibili ai territori e lontani dalla politica dei palazzi, percepita come irrimediabilmente distante. I leader di partito escono depotenziati nel loro ruolo, considerato con sospetto dai gruppi parlamentari e vissuto con desolazione dal corpo sociale. È per questo che il Mattarella-bis non costituisce per il mondo politico un passo avanti ma solo la garanzia dello status quo e, dal loro punto di vista, il male minore.

 

Si è però consolidata l’architrave Mattarella-Draghi, secondo l’antica massima “simul stabunt vel simul cadent”: insieme staranno o insieme cadranno. Non era mai accaduto nella storia del Presidente della Repubblica che il suo destino fosse così legato a quello del Presidente del Consiglio, per dare equilibrio al sistema e garanzie su Ue e patto Atlantico. Il peso del sì di Mattarella al Parlamento e a Draghi equivale a quello del sì di Draghi al Presidente della Repubblica per un Governo in piena pandemia.

 

L’elezione di Sergio Mattarella era desiderata dalla cultura politica moderata, che si rispecchia nella sua testimonianza e nella fedeltà a quei princìpi costituzionali che oggi animano di consapevolezza il suo sacrificio. Nella dinamica del voto è anche emersa la verità di un intero sistema politico imploso e le tensioni irrisolte del sistema. L’ombra della cultura populista ha influito e negato l’arte della mediazione per premiare “l’uno vale uno”. Mentre, ricordava Moro, «per fare le cose ci vuole il tempo che ci vuole». Il labirinto generato di veti incrociati ha fatto sì che l’unico super partes, perché fuori dal gioco, rimanesse il Presidente uscente.

 

Lo dimostrano i troppi nomi autorevoli sacrificati. È vero che questo avveniva anche in passato, ma i candidati scelti rappresentavano sempre una storia e un’appartenenza. Dispiace che candidati come il presidente del Consiglio Draghi o la ministra Cartabia non siano stati considerati candidati politici perché mai erano stati personaggi “partitici”, mentre hanno il merito di aver cambiato il destino del Paese nei campi dell’economia, della politica estera e della giustizia.

 

È stato inoltre un errore dei partiti servirsi dell’elezione del Presidente per vagliare un test politico: quello tra il bipolarismo e il centrismo, ma anche cercare un accordo che andasse oltre l’elezione: il rimpasto di governo, la legge elettorale, le riforme che mancano e così via.

 

È così rimasto il presidente Mattarella, in cui arde silenziosa la cultura del cattolicesimo democratico, ignorata dagli analisti politici che non vogliono riconoscerla. Questa “tradizione vivente” può essere compresa attraverso alcune parole chiave vissute e interpretate nel tessuto comunitario — garanzie, mediazione, laicità, riformismo, europeismo, redistribuzione, inclusione — e nell’esperienza della I sottocommissione alla Costituente, cui parteciparono Dossetti, La Pira e Moro.

 

Nella storia del dopoguerra ispirata da pensatori come Maritain, Montini, Scoppola e altri, i cattolici democratici di cui Mattarella rimane l’erede, rimangono gli interpreti di una visione costituzionale da cui sono nati la struttura dei diritti civili, politici e sociali, il pluralismo e l’organizzazione dei poteri fondati sulla partecipazione. Non è un caso che Mattarella abbia a cuore la società civile e l’articolazione dei poteri legislativo ed esecutivo, controbilanciata con gli organi di garanzia come la Corte Costituzionale e i poteri affidati al Capo dello Stato.

 

È la cultura credibile dell’umanesimo integrale da cui ripartire per formare le giovani generazioni. Quando David Sassoli chiese a La Pira di spiegargli questa tradizione a cui apparteneva, gli fu risposto che «la storia è come un oceano in cui tutti sono in grado di cogliere le correnti quando affiorano, ma in profondità altre si preparano, si gonfiano, e scoprirne la forza prima che si manifestino è opera della politica». Della grande politica.

 

Nel breve discorso dopo la sua elezione, Mattarella ha consegnato alla cultura italiana due parole su cui ripartire insieme: “responsabilità” e “rispetto” delle istituzioni. Sono i due pilastri che gli hanno permesso di diventare mediatore politico, porta sull’Europa e voce della coscienza sociale. In questo secondo mandato, a Mattarella è richiesto un ruolo di enzima sociale e politico, per mettere insieme le forze sane del Paese.

 

Alla vigilia delle elezioni eravamo a un bivio: il sistema poteva andare verso un semi-presidenzialismo o verso un “centrismo” capace di favorire il governo delle forze moderate attraverso una legge elettorale di tipo proporzionale. Il tema resta, e il Parlamento è chiamato a decidere anche sulla riforma di cui ha bisogno la figura ibrida del Presidente, che è garante e governante, àncora di salvataggio nelle crisi istituzionali e rappresentante dell’unità nazionale. La politica partitica che abbiamo visto agire in questi giorni sembra sfornita di obiettivi e di metodo per offrire una risposta adeguata a questa domanda storica. Ma è urgente provare. Per tutti vale il monito di Francesco: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi».

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