Composto. Severo. Malinconico. Il corpo del Presidente rappresenta il bisogno di rassicurazione che promana dalla sua fissità. Evoca il secolo scorso ma è diventato un’icona pop

L’altra volta le fotografie lo ritraevano in casa della figlia in piedi, discreto, pensoso, alle spalle di amici e parenti mentre lo schermo trasmetteva le immagini della sua elezione nell’emiciclo di Montecitorio. Senza dubbio Sergio Mattarella è abituato a tenere le distanze e a esternare ben poco dei suoi sentimenti: apprensione, ansia, soddisfazione, disdetta. Al massimo lo vedi corrucciato, e tuttavia quella manifestazione appena imbronciata subito sfuma nella severità del viso. Nell’attesa della prima elezione non era seduto comodamente in poltrona, come si conviene all’ospite illustre e probabilmente più anziano della famiglia, mentre nell’audio del televisore risuonava il suo nome ripetuto in modo cadenzato, quasi una litania.

 

Era sette anni fa e ora la scena si ripete, ma lui con i parenti davanti alla televisione non c’è. Non è lì a guardare sul teleschermo la diretta della propria elezione, perché gli anni trascorsi pesano e ora ne ha ottantuno e, come auspicava fortemente, questa è l’età in cui uno si gode pienamente il distacco dagli altri e dalle cose. Invece l’hanno richiamato in servizio permanente ed effettivo come ultima spiaggia d’una Repubblica che ha perso la rotta e abbisogna d’essere di nuovo accompagnata su per la salita da un pastore più vecchio e canuto d’allora. Sono stati sette lunghi anni di alti e bassi che Mattarella ha dovuto sopportare con stoicismo in cima al Colle, dove altri dopo di lui volevano fortemente salire, compreso l’anziano padrone delle televisioni, primo distruttore del sistema politico, che adesso è ricoverato in una clinica per l’ennesima riparazione d’un corpo stremato.

 

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A definire la figura fisica di Sergio Mattarella sono prima di tutto quei capelli, così forti in testa in un uomo della sua età, e soprattutto bianchi. I capelli della saggezza, e quella bianchezza, che unita agli occhi azzurri e profondi, fa del nuovo-vecchio Presidente della Repubblica un uomo molto diverso dal personale politico della Seconda, Terza Repubblica, e ora anche Quarta. Com’era evidente già sette anni fa, Sergio Mattarella è una persona dell’altro secolo, almeno nella figura fisica, nei modi e nei gesti. Al momento della sua prima elezione al Colle m’era venuto d’immaginarlo nella cerchia degli oranti di don Gaetano, il prete con i pince-nez, nel corteo d’illustri uomini politici democristiani che vanno avanti e indietro nel piazzale dell’Eremo di Zafer recitando il rosario la sera, raccontato dalla fervida fantasia di Leonardo Sciascia in “Todo modo”. Il corpo di Mattarella evoca quello dei potenti democristiani, persino di Aldo Moro, il suo maestro di severità, silenzio e ponderate posture, l’uomo che non abbiamo mai visto nelle fotografie privo di giacca e cravatta, o senza il paltò lungo del dopoguerra, lo stesso che indossava nel momento della morte acciambellato nella stiva della R4 dei brigatisti assassini.

 

In questi sette anni il modo di tenere le spalle di Mattarella non è tuttavia mutato, sotto il peso che già gli gravava per l’omicidio del fratello, per il dissolversi del partito in cui militava sin da giovane, per quello che gli cadeva addosso succedendo a un comunista d’altri tempi, Giorgio Napolitano, cui era toccato lo stesso bis che ora tocca a lui. I pesi del populismo e della pandemia che l’hanno segnato negli ultimi anni non hanno certo migliorato la sua postura. Forse un poco attenuato quel tratto d’afflizione che gli si era incollato addosso al momento della prima salita al Colle, e che con uno sforzo spesso riuscito s’è trasformato in più d’una occasione in sorriso.

 

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Ride poco e la sua compostezza fa intuire una forma di autocontrollo raro nella nuova politica della Repubblica. Dopo il corpo del Capo di Berlusconi, dopo i corpi dei giovanotti della neo-politica, Renzi e Di Maio, dopo il corpo del Capitano avvolto nelle felpe pubblicitarie o quello sorridente e vaporoso della nuvola Meloni, il corpo di Sergio Mattarella è quello d’una statua che cammina. In questi sette anni di presidenza, e in particolare in questi quasi tre di pandemia, sembra aver perso qualcosa del dolore sottile proprio della generazione dei notabili democristiani, da cui derivava l’aspetto di sofferta, consapevole e in fin dei conti esibita mestizia, che definiva il carattere umano e politico di quella classe dirigente, come aveva scritto nel momento della sua prima elezione Francesco Merlo.

 

Il discepolo di Moro non incarna più totalmente il pessimismo meridionale del maestro, di cui scrisse Sciascia, che lo portava a «vedere ogni cosa, ogni idea, ogni illusione – anche le idee e le illusioni che sembrano muovere il mondo – correre verso la morte. Tutto corre verso la morte: tranne il pensiero della morte, l’idea della morte».

 

In questi sette anni il corpo di Mattarella sembra aver perso in parte la sua accentuazione meridionale. Se c’è un corpo che personifica l’idea stessa della Repubblica nella sua staticità è ora proprio il suo: la continuità della forma. Forse lui voleva ritrovare un proprio modo d’essere fuori da quella rappresentazione di stabilità, che lo inchiodava alle stanze del Quirinale e alla loro raffigurazione. In un momento caotico, confuso, incerto, dominato da una classe politica priva di visioni d’insieme in un mondo così complesso e articolato rispetto a quello in cui hanno operato le due precedenti, il corpo di Mattarella rappresenta il bisogno di rassicurazione che promana dalla sua fissità. Quando fu eletto l’altra volta si dice che il suo sponsor principale Matteo Renzi avesse manifestato evidenti perplessità circa l’assenza d’empatia di Sergio Mattarella, e che Giorgio Napolitano avrebbe asserito che neppure lui l’aveva al momento della nomina a presidente, ma che il ruolo cui era vocato l’avrebbe di sicuro prodotta. Ora possiamo constatare che l’empatia non è un tratto psicologico necessario al Capo dello Stato, ovvero la necessaria partecipazione emotiva nei confronti dei propri interlocutori, ma esattamente il contrario: la fermezza. Dote che i timidi possiedono naturalmente come una forma di difesa dalla introversione del loro carattere.

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In questo Sergio Mattarella non è mutato. Come mi era capitato di scrivere l’altra volta che è diventato Presidente, la sua mestizia, che permane sotto tutto, non esprime solo un sentimento di dolore prodotto dalla vita, ma anche una forma di desiderio, indiretto e sottile, che i siciliani come lui possiedono in una forma così unica. Per loro la malinconia è disincanto e distanza, ma anche la configurazione d’un bruciante desiderio, sempre impercettibile, costretto a ritornare a se stesso cosi da lasciarli doloranti. Del resto ancora una volta Sergio Mattarella non ha potuto sottrarsi al destino d’impersonare la Repubblica nella sua maggiore carica con il silenzio e la parsimonia di chi deve pronunciare per forza di cose il proprio sì. Così ha voluto di nuovo per lui il Fato.