The Duke, la vera storia del ladro idealista che rubò un Goya

Grazia e humor del film di Roger Michell. Praticamente un trionfo del cinema all’inglese

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Molti registi sono più famosi dei loro film. Altri invece no. L’inglesissimo Roger Michell apparteneva al secondo gruppo, oggi purtroppo in ribasso. E se il suo nome non vi dice niente, titoli come “Notting Hill”, “The Mother” o il delizioso “The Week-end”, vi rinfrescheranno la memoria.

 

Nato per caso in Sudafrica, scomparso a soli 65 anni lo scorso autunno dopo una lunga carriera spesa tra teatro (il grande teatro inglese), cinema e tv, Michell non era infatti un “autore”. Ma aveva un orecchio assoluto per quei due vecchi sempreverdi che in mancanza di meglio chiamiamo storie e personaggi. “The Duke” nasce dalla storia (vera) di un Goya rubato nel 1961 alla National Gallery 19 giorni dopo essere stato comprato all’asta dallo Stato per 140mila sterline, cifra allora folle. Una vicenda così buffa e imbarazzante per la giustizia inglese da esser stata desecretata solo nel 2012. Anche se dietro il colpaccio non c’era la mafia o un genio del furto, come si ostinò a credere Scotland Yard, ma un mite, maturo e squattrinato padre di famiglia di Newcastle (l’impagabile Jim Broadbent), una delle città inglesi più colpite dalla guerra. Un idealista autodidatta che dopo una vita spesa a scrivere commedie impubblicabili e a combattere per cause nobili quanto perse, vide in quel quadro dal valore esorbitante un’occasione di riscatto. Ovvero la possibilità concreta di ottenere qualcosa non per sé ma per i diseredati. Con buona pace della moglie (un’infagottata, borbottante, adorabile Helen Mirren), che sarà l’ultima a scoprire di avere un capolavoro nell’armadio di casa…

Il resto - le complicazioni sociali e familiari, gli infiniti e intonatissimi comprimari, il lungo e irresistibile processo in cui culminò il caso - va scoperto in sala. Sapendo che mai il “cinéma de papa”, per usare la formula con cui la nouvelle vague bollò i film ben fatti ma tradizionali, si rivelò più intimamente intrecciato a una storia che è anche un concentrato di buone maniere (e se volete di buoni sentimenti), di sogni usurati ma non estinti, insomma di cieca e irragionevole speranza nella perfettibilità degli umani e delle società. Resa con uno humour e una grazia - luci, dialoghi, musiche, split screen: un trionfo del cinema all’inglese - che sono un balsamo per chiunque resista alla dittatura del nuovo. Ah, se ne esce anche felici: vi pare poco?

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