Anziché tenere l’elmetto come se fossimo tutti in Ucraina dovremmo riscrivere il modo in cui viviamo insieme sul pianeta. Perché è l’unica cosa razionale da fare, se ci teniamo alla pelle dei nostri figli

In ogni guerra c’è un prima, un durante, un dopo. Il prima è una terra largamente inesplorata. «Gli animali combattono, ma non fanno la guerra», notava Hans Magnus Enzensberger: «Solo l’uomo si dedica su larga scala, in modo deliberato e con un certo entusiasmo allo sterminio dei propri simili». Ed è bravissimo a farlo: eppure massacrarsi a vicenda non è per niente scontato, ovvio o naturale.

«C’è sempre stata», si dice, ma per buona parte dell’esistenza della razza umana su questo pianeta non si è fatta la guerra. «È nella nostra natura», ma la guerra non c’entra niente con l’aggressione tra singole persone; il massacro su larga scala dei propri simili non è «un istinto», non viene facile a nessuno. Al contrario, andare a sterminare rischiando di essere sterminati a propria volta è una scelta molto difficile, contraria agli istinti di sopravvivenza e di cooperazione con un altro essere umano. Perciò la guerra, ogni guerra, ha bisogno delle sue giustificazioni e della sua propaganda, di un sistema culturale che renda accettabile e fin desiderabile uccidere e morire per la causa - sempre definita come «causa giusta».

Questo sistema non si può costruire quando scoppia un conflitto: deve essere già pronto, per essere acceso all’occorrenza, essere continuamente oliato e riprodotto attraverso i suoi meccanismi e i suoi rituali. Questo sistema - talmente pervasivo che non lo vediamo nemmeno più - è quello che ci fa pensare naturale e inevitabile che la storia del mondo sia una successione di guerre, che ci fa restare seduti tranquilli su arsenali nucleari «necessari per la nostra sicurezza», che ci fa credere che non ci siano altri modi di proteggere i propri interessi se non l’uso della forza - e che all’occorrenza si possa compiere qualunque mostruosità necessaria, in nome della causa, perché «è giusta».

In questo prima si costruisce la cultura della guerra e si prepara tutto il resto: le armi vengono sviluppate, prodotte, vendute e comprate, si fanno grandi affari, si riempiono gli arsenali. Gli arsenali di tutti: anche dell’amico di oggi che sarà il nemico di domani. Poi una guerra scoppia, e inizia il durante.

Nel durante, oltre ai drammi della popolazione direttamente coinvolta dalle ostilità - e non ne parliamo qui, ma nei conflitti armati oltre al numero di vittime e di profughi ci sono diverse dimensioni della sofferenza dei civili, che si intrecciano e moltiplicano e durano anche dopo, quando i riflettori si spengono e la nostra attenzione va altrove - tendono a succedere una serie di cose problematiche, sempre le stesse. Stanno accadendo anche ora, qui. La rinuncia alla complessità e all’analisi articolata a favore di un’informazione semplificata, molti slogan, titoli a effetto. La richiesta generale di schierarsi: «Tu con chi stai?», e non basta rispondere: «Io sto con la popolazione». Gli «allora stai con l’altro!», usati come strumento per chiudere un confronto o rifiutare la complessità (venticinque anni fa c’era chi chiedeva di non bombardare la città e la popolazione di Belgrado: «Allora stai con Milosevic!». Ricordate? Lo schema è sempre quello). Salgono i toni del linguaggio, le scelte lessicali si fanno sempre più esasperate, più sanguinose e spaventose. Ci siamo messi l’elmetto come se fossimo tutti in Ucraina, ma non lo siamo. E se si può comprendere qualunque tipo di reazione e di linguaggio, quando proviene da chi si trova sotto le bombe e i mortai, quelli come noi che non sono direttamente coinvolti nelle ostilità avrebbero forse il dovere di controllare i propri registri, di distinguere l’emozione dall’informazione, di fare spazio alla complessità, e soprattutto di ragionare sulle soluzioni politiche e diplomatiche anziché iniziare e finire con «Quante armi mandiamo?».

Il durante è il tempo in cui prendiamo coscienza della sofferenza dei civili in guerra… ma solo di alcuni. La solidarietà - giustissima - che stiamo mostrando verso la popolazione ucraina è meravigliosa e dà speranza nel futuro, ma ci viene relativamente facile sentire il loro dolore. Non riusciamo a sentire nello stesso modo il dolore degli altri, dei civili nelle decine di conflitti aperti nel mondo, di chi per fuggire da guerre e persecuzioni finisce a morire nel deserto o in mezzo al mare. Perché? Inutile girarci intorno: viene facile mettersi nei loro panni perché sono i nostri, perché ci assomigliano, perché sono bianchi. Sentire il dolore di tutti dovrebbe essere un esercizio collettivo del prima: ne fossimo capaci, non si arriverebbe alla guerra.

Il durante è anche il tempo in cui si inizia a dire ossessivamente: «E dove sono i pacifisti adesso, eh?», «E come la fermi la guerra adesso?». Dove sono i pacifisti? Dove stanno ogni giorno, a esplorare la terra del prima, a cercare di smontare il sistema della guerra, a parlare di disarmo e difesa nonviolenta, a trovare alternative per praticare la pace. A occuparsi delle vittime dei conflitti aperti (ma senza riflettori) o delle loro conseguenze. In mezzo al mare, anche, come me sulla nave di soccorso ResQ People, dove soccorriamo persone profughe e disperate (ma con la pelle nera: perciò facendo fatica persino per affermare l’ovvio, cioè che la vita è un diritto di tutti). «Dove erano spariti i pacifisti?». Non erano spariti manco per niente. Bastava guardare.

E il dopo? Se la guerra in Ucraina finisse domani, che cosa faremmo dopodomani? Un gran sospiro di sollievo e poi ci dimentichiamo di tutto - comprese le vittime - fino allo scoppiare del prossimo conflitto, sempre che sia tra quelli che ci interessano? Nel mondo globale del ventunesimo secolo, e con gli arsenali pieni di armi in grado di estinguere la razza umana, non ce lo possiamo più permettere. È l’intera struttura che va cambiata, è il sistema guerra che va smantellato, è il modo in cui viviamo insieme sul pianeta che va riscritto.
Se la guerra in Ucraina finisse domani, dopodomani (come ieri e come oggi) dovremmo parlare di smilitarizzazione, di commercio di armamenti, di disarmo nucleare, di pace positiva. Di pratica dei diritti umani, perché sono i diritti che realizzano la nostra sicurezza. Di uguaglianza e giustizia, che fondano la pace. Non sono sogni da buonisti e non abbiamo tante alternative: è l’unica cosa razionale da fare, se ci teniamo alla pelle dei nostri figli. Si vis pacem, para pacem: prima, durante e dopo.