La prima volta che Annie Ernaux ha oltrepassato la soglia di un supermercato era il 1960. Si chiamava semplicemente Supermarket e si trovava in un sobborgo di Londra dove lei faceva la ragazza alla pari in casa di una signora che le aveva messo in mano una lista e un carrellino della spesa. Fino ad allora, lo sanno bene i suoi lettori, la giovane - non ancora - scrittrice francese aveva vissuto a Yvetot, un paesello rurale della Normandia dove i genitori gestivano una bottega. I supermercati, per lei, avevano la stessa realtà dei dischi volanti.
Inizia così, con un ricordo, “Guarda le luci, amore mio” (L’Orma editore, 112 pp. € 13), un diario che Ernaux tenne, tra il 2012 e il 2013, sulle visite fatte all’Auchan di Cergy, il sobborgo a 30 chilometri da Parigi nel quale abita. Il racconto continua: dopo «una certa apprensione» iniziale nei confronti di un posto di cui le erano estranei meccanismi e linguaggio, si era per la verità abituata molto in fretta, vinta da tutti quegli yogurt, merendine, Smarties, insomma tutto il ben di dio che è il motore ultimo dell’irrisolta ambivalenza dei nostri sentimenti – un po’ alienazione (sempre meno), un po’ seduzione (sempre più) – verso i luoghi del commercio di massa. Alla fine, la giovane Annie aveva iniziato a frequentarlo regolarmente assieme a un’amica con la quale, ogni tanto, aveva anche tralasciato di passare alla cassa.
Il primo supermercato self-service della storia è stato il Piggly Wiggly che aprì nel 1916 a Memphis, in Tennessee, e che ben presto divenne il modello per migliaia di posti simili in tutti gli Stati Uniti (oggi la sua fedele ricostruzione è un’attrazione del Museo della scienza e della storia della città).
La storia della grande distribuzione è interessante perché racconta molto di come siamo. Persino una come Joan Didion, che di mestiere faceva proprio quello – raccontarci come siamo -, mentre lavorava a Vogue aveva seguito con estremo interesse un corso di Teoria dei centri commerciali.
La memoria è da sempre il polo verso il quale Ernaux è orientata, lo spago con il quale ha cucito tutti i suoi libri. Nel frequentare quel luogo acquatico e cangiante, ha ripercorso le varie fasi della propria vita – dall’infanzia (“L’altra figlia”) alla figlianza (“Una donna”, “Il posto”), dal diventare donna (“Memorie di ragazza”) all’aborto (“L’evento”, che è anche diventato un film) solo per citare alcuni titoli – fino ad arrivare a ricostruire la storia della Francia in quello che per molti è il suo capolavoro, “Gli anni”. Negli anni, appunto, l’ago della sua scrittura si è spostato verso un tipo di autobiografia sociale che alcuni critici hanno, contro il suo parere, definito auto-fiction. Eppure, di invenzione, nei suoi testi, non c’è praticamente traccia. In “Scrivere è dare forma a un desiderio”, rifacendosi al sociologo Pierre Bourdieu, dice che non potrebbe mai immaginare una forma letteraria slegata dai rapporti sociali: prefiggendosi di fare entrare il lettore nel “reale”, il suo obiettivo è di restituire a ogni essere umano il posto che ha nella vita. Ed è esattamente in questo programma che si inscrive “Guarda le luci, amore mio”, dove un Auchan di periferia diventa osservatorio privilegiato del mondo: «Quante storie di vita si potrebbero scrivere anche solo attraversando da una parte all’altra uno dei centri commerciali che frequentiamo». Non solo funzione domestica, quindi, ma sociale e, quindi, politica: «In nessun altro spazio, pubblico o privato che sia, agiscono e convivono individui tanto differenti, per età, reddito, cultura, origine geografica ed etnica, stile di abbigliamento. In nessun altro spazio chiuso ci si può trovare decine di volte l’anno in presenza dei propri simili, con l’opportunità di farsi un’idea sul modo di essere e di vivere degli altri».
Eppure, nota Ernaux, i supermercati «stanno cominciando soltanto ora a figurare tra i luoghi degni di avere una loro rappresentazione». Le spiegazioni che propone sono due. La prima è che, rientrando nello spettro delle attività femminili (fare la spesa è «un’estensione del dominio femminile»), siano restati sostanzialmente invisibili «come d’altronde lo è anche il lavoro domestico che le donne svolgono. Ciò che non ha valore nella vita non ne ha nemmeno in letteratura». La seconda è che, fino agli anni Settanta, gli scrittori francesi fossero appartenuti principalmente a élite che vivevano a Parigi dove la grande distribuzione non era ancora arrivata.
È raro in effetti trovarne, in letteratura, una narrazione diffusa. Nel 1955, Allen Ginsberg nella poesia “A supermarket in California” aveva immaginato di passeggiare con Walt Whitman tra le corsie ragionando sulle direzioni prese dalla loro amata America: a tema c’erano l’artificialità materialistica del consumo di massa in opposizione alle cose “naturali”. Nel 1963, in “Marcovaldo al supermarket”, Italo Calvino aveva proiettato il suo adorabile antieroe, con la sua famiglia di squattrinati, nella classica situazione da invidia da acquisti (guardare gli altri che comprano diventa “spettacolo”): presi da un raptus consumistico, avevano riempito i carrelli fino all’orlo e, per evitare le casse, erano riusciti a fuggire attraverso un buco nel muro per poi dare in pasto l’intero il bottino a una gru. Lo stesso sguardo straniato si ritrova in “La vita agra” (1962), dove Luciano Bianciardi osservava il nascente consumismo descrivendo causticamente le “donnette ipnotizzate” che si accalcavano nel “bottegone nuovo”, una delle prime Esselunga, e snocciolando mirabolanti merceologie annichilatrici. Luogo “panottico”, nel quale si è costantemente osservati, e di lavaggio del cervello è anche il super che Don De Lillo racconta in “Rumore bianco” (1985), che diventa il fulcro di quel loop inesauribile, acquisto-consumo-distruzione, che appaga e frustra nello stesso momento.
Assimilata la “rivoluzione delle merci”, nei decenni successivi i toni si fanno via via più sfumati, meno paranoici e più introspettivi, e da osservatore esterno colui che scrive diventa a sua volta un consumatore. Addirittura in “La strada” di Cormac McCarthy (2006), a sopravvivere all’apocalisse è proprio un carrello del supermercato che, sottratto al suo scopo primario e in una rinnovata attribuzione di senso, diventa inaspettatamente un aiuto per la sopravvivenza dei protagonisti. Nel 2012 esce il memoir “Aftermath” dove Rachel Cusk parla del proprio divorzio e dove, a proposito del supermercato in fondo alla strada, scrive: «I suoi spazi illuminati al neon sono così impersonali ed eterni da emanare contemporaneamente benessere e alienazione. Lì dentro ci si può scordare che non si è soli, o che lo si è», che sono le parole scelte da Ernaux come esergo del suo libro.
Forse invogliati da evidenti ragioni estetiche, sono stati film e serie tv ad avere raccontato più volentieri la realtà del supermercato. Che, lo avevano già suggerito i Clash con la loro “Lost in the Supermarket”, può essere alienante, come per la giovane killer “Nikita” del film di Besson del 1990 che, di ritorno dall’addestramento, va a fare la sua prima spesa ed è talmente spaesata da non riuscire a riempire da sola il proprio carrello. Oppure luogo di seduzione, come per l’euforica Anne Hathaway che, in uno degli episodi più belli della serie “Modern Love”, rimorchia un uomo stupendo davanti al reparto delle pesche, o come per la strepitosa Monica Vitti che, nell’esilarante video di “Ma chi è quello lì?” di Mina (1987), impazzisce per improbabili energumeni, che si ostinano a ignorarla, individuati tra le cozze e il banco dei peperoni. Tra le tante scene di comicità straniante, ricordiamo anche il delizioso Macaulay Culkin che mette sul nastro della cassa detersivi e buoni sconto come un piccolo adulto in “Mamma ho perso l’aereo” (1990), la mitica entrata in scena di Drugo, accappatoio, occhiali da sole e ciabatte, di fronte al reparto dei freschi ne “Il grande Lebowski” (1997) e anche la ex mite Kathy Bates che, al grido di «Towanda», tampona ripetutamente l’auto di due tipe che l’hanno derisa in “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991).
“Guarda le luci, amore mio”, il cui titolo è la frase pronunciata da una mamma mentre indica al figlio gli addobbi natalizi, è in definitiva il tentativo di inscrivere il supermercato, in quanto «grande appuntamento umano», non solo nella letteratura, ma anche nella memoria collettiva. Il modo in cui Ernaux riesce a farlo è sostanzialmente privo di pregiudizi, quel «vedere diversamente» che mette al centro della sua opera, attraverso se stessa, le persone. A differenza di altri narratori, come Zola in “Al paradiso delle signore”, si attribuisce una duplice identità: di chi, con o senza lista in mano (a volte anche per pura distrazione, «per dimenticare l’insoddisfazione della scrittura mescolandomi all’andirivieni delle persone»), fa parte della folla, e di chi, scrittrice, si interroga sui luoghi degni di rappresentazione. E non mancano nemmeno i momenti di indignazione di fronte all’esposizione “sessuata” dei giocattoli («Fremo per la rabbia e il senso di impotenza. Penso alle Femen, è qui che dovete venire [...]. Vi darei una mano»), ma anche per l’umiliazione inflitta da certi prodotti troppo cari che suggeriscono, a chi non può permetterseli, «tu non vali niente».
«È stato senza esitare», scrive ancora «che per “raccontare la vita”, la nostra, oggi, ho scelto come oggetto gli ipermercati».