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Un tesoro riemerso dopo sessant’anni, un invito a viaggiare nel tempo con la guida di uno sguardo d’eccezione. Saranno esposte a Casale Monferrato trenta foto di Lisetta Carmi, scattate durante due viaggi in Israele, nel 1962 e nel ’67. «Nel primo», spiega Giovanni Battista Martini, curatore dell’Archivio Lisetta Carmi, «l’artista ha colto la complessa realtà di cui era costituito il nuovo Stato. Nel secondo, realizzato pochi giorni dopo la fine della Guerra dei Sei Giorni, richiama, attraverso il suo obiettivo, la nostra attenzione sui danni provocati dalla guerra nei villaggi e sulle condizioni di vita nei campi-profughi palestinesi».
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È un’occasione per cercare di conoscere anche gli altri lavori di questa fotografa geniale, nata a Genova nel 1924 e trasferita dagli anni Settanta nell’ashram buddista che ha fondato tra gli oliveti di Cisternino, in Puglia. Tra i suoi lavori più noti, i reportage nella metropolitana di Parigi e tra i travestiti di via del Campo, i ritratti di Ezra Pound e di artisti provenienti dai due ambienti a cui è legata la sua formazione, cioè la musica (da giovane suonava il pianoforte, è stata una concertista di successo) e il teatro (dove ha mosso i primi passi come fotografa di scena).
Lisetta Carmi, Gerusalemme, Bambini che, secondo il comandamento della Torà non vogliono lasciarsi fotografare, Quartiere ortodosso di Mea Shearim, 1962-63
Si intitola “Viaggio in Israele e Palestina” la mostra curata da Daria Carmi e Giovanni Battista Marini per il MonFest2022, la biennale internazionale di fotografia che si terrà a Casale Monferrato dal 25 marzo al 12 giugno. Tra le altre esposizioni in programma, “Il Tanaro a Masio”, una scelta di «appunti visivi» di Vittore Fossati curata da Giovanna Calvenzi; un lungo reportage su Pompei di Claudio Sabatino (“Fotografare il Tempo, Pompei e dintorni”, a cura di Renata Ferri); il “Tributo a Leonardo”, reinterpretazione dell’Ultima Cena di Maurizio Galimberti (a cura di Mariateresa Cerretelli). Gli scatti di Lisetta Carmi saranno ospitati dal Complesso Ebraico di Casale Monferrato. Ne abbiamo parlato con Daria Carmi, che ha curato l’esposizione insieme a Martini.
Lisetta Carmi,Gaza, campo profughi palestinese, 1967
Come è nata la mostra delle foto di Lisetta Carmi? Avete lo stesso cognome ma non siete parenti, vero?
«No, non siamo parenti. Carmi è un cognome ebraico italiano, oggi più diffuso in Israele che in Italia. La mia radice paterna è migrata in Italia nel 1492, in seguito al decreto dell'Alhambra e alla conseguente “Cacciata dalla Spagna” degli ebrei. Io sono nata a Casale Monferrato. Lisetta Carmi invece è nata a Genova: non sono sicura che la sua vicenda famigliare si sovrapponga alla mia, ma certamente siamo le uniche due famiglie, intese come discendenze, di origine ebraica a mantenere questo cognome in Italia. Lisetta si è allontanata dalla Comunità Ebraica per abbracciare la spiritualità di Jaipur Babaji Herakhan Baba. A Casale Monferrato la comunità ebraica è piccola piccola, ma custodisce dal 1595 una delle Sinagoghe più famose al mondo. Qui, nel tempo, abbiamo fatto dell’arte contemporanea uno strumento di incontro, di dialogo, di confronto ed è ricco il palinsesto di attività a carattere culturale che proponiamo sia alla comunità ebraica persistente che alla comunità allargata di tutti coloro che hanno senso di appartenenza verso il complesso ebraico, che testimonia l’importanza del contributo degli ebrei alla Storia d’Italia, anche dal punto di vista del dialogo interreligioso e della produzione culturale. In questo contesto era grandissimo il desiderio di portare nei nostri spazi una mostra fotografica di Lisetta Carmi, che si è avverato grazie alla generosità dell’artista stessa ma anche grazie alla disponibilità e al lavoro dell’Archivio Lisetta Carmi, guidato sapientemente e con passione da Giovanni Battista Martini, e grazie all’impegno e alla facilitazione di Maria Teresa Cerretelli, direttore artistico del MonFest2022, Festival di fotografia contemporanea nel quale la mostra si inserisce».
Lisetta Carmi: Gerusalemme, immigrato da Sannicandro in Israele, 1962-63
Perché questo desiderio?
«Lisetta Carmi è una grande artista, il cui lavoro, ai miei occhi, non ha ancora ottenuto il pieno riconoscimento che merita. Negli ultimi anni però stiamo assistendo a una riscoperta di tutta la sua produzione, che davvero ha il valore della ricerca, dello studio e del processo di storicizzazione di quanto ha scattato, delle immagini che ha raccolto e della sua produzione artistica. Fortunatamente lei può godere di questi omaggi e sorriderne, ma l’età avanzata non le consente di partecipare alle molte iniziative che la celebrano. Sono le sue fotografie che parlano, e hanno ancora molte cose da dire. Il suo lavoro è caratterizzato da un interesse in primis per l’essere umano e nello specifico per quegli esseri umani che restituiscono spazi interstiziali ma estremamente potenti perché carichi di verità. Ugualmente Lisetta Carmi ci propone un’estetica matura, in un certo senso colta, poetica, dove si colgono corrispondenze con i grandi pittori della Storia dell’Arte e con la fotografia di reportage».
Lisetta Carmi, Beersheba, Campo di beduini, 1962-63
Le radici ebraiche sono importanti nel suo lavoro?
«L’appartenenza al mondo ebraico è un elemento che, in questo contesto è valore aggiunto, perché divulgare il suo lavoro, osservare le sue fotografie restituisce anche la biografia di una giovane donna ebrea italiana nata negli anni Venti in Liguria, che si nutre dell’apertura mentale e del grandissimo rispetto per la cultura che si respirava in famiglia. Un’atmosfera che si conserva anche durante gli anni delle leggi razziali e della Shoah, anni in cui nonostante la fuga in Svizzera lei continua a studiare pianoforte, quasi rifugiandovisi. Ed è il pianoforte che la accompagna in Israele, dove i primi quattro viaggi sono appunto parte di tournee concertistiche».
Così arriviamo all’oggetto della sua osservazione: Israele.
«In questi tempi storici più che mai sappiamo che ogni cittadino del mondo si confronta con una geopolitica e con una storia delle nazioni globale, ma per un ebreo la necessità di relazionarsi con Israele, di osservarlo e di osservare sé stessi riflessi, è imprescindibile e complessa. Le fotografie che compongono il percorso espositivo corrispondono a due viaggi che Lisetta compie in Israele, questa volta per fotografare: il primo svoltosi a cavalo fra il 1962 e il 1963 e il secondo nel 1967. La mostra è una splendida, se non unica, occasione per scoprire oggi e riconoscere come “parlante” e attuale quanto catturato da Lisetta Carmi oltre cinquanta anni fa».
Come è nato il titolo della mostra? A leggerlo oggi sembra un riconoscimento dei due Stati, o era il titolo originale del reportage?
«La mostra partecipa alle proposte del MonFest2022, Festival di Fotografia Contemporanea a Casale Monferrato, alla sua prima edizione. In città saranno aperte al pubblico undici mostre di livello internazionale attorno al tema “Le forme del tempo. Da Francesco Negri al contemporaneo”. L’ispirazione deriva da Italo Calvino che definisce le città come “la forma del tempo” e in questa visione accoglie anche i paesaggi, i volti, il lavoro di questi importanti fotografi. Insieme a Giovanni Battista Martini e a Mariateresa Cerretelli abbiamo scelto il titolo di questa mostra perché fosse armonico con l’intero progetto e “secco”, “preciso” così come sono le fotografie di Lisetta Carmi. Personalmente poi penso a George Kubler, che analizza come la storia dell’arte cristallizza ciò che insieme la società, cioè tutti noi, riconosce come opera d’arte, salvaguardandola dall’oblio e trasmettendola alle future generazioni, partecipando così alla definizione stessa di opera d’arte, di ciò che corrisponde allo status, alla percezione collettiva, di Arte. In questo senso sono certa che questa mostra, pur nella sua modestia, è così preziosa e importante che partecipa certamente alla divulgazione e storicizzazione del lavoro di Lisetta Carmi. Per chi verrà a visitarla sarà un piacere per il cervello e per gli occhi, nonché una grande scoperta di questa eccezionale fotografa».
Molte foto sono inedite: sono state stampate per questa occasione? Come ci si comporta, quali scelte tecniche si fanno, quando si deve stampare una foto scattata cinquant’anni fa?
«Chi ha guidato in questo fondamentale lavoro di produzione, di sviluppo di nuovo patrimonio culturale e ricerca artistica è Giovanni Battista Martini, che io percepisco come l’”erede culturale” di Lisetta Carmi. Amico storico, gallerista di arte visiva, genovese e appassionato, cura quotidianamente ogni aspetto del lavoro di Lisetta Carmi, che ha seguito tramite lui ogni singola fase e approvato puntualmente le scelte progettuali. Il lavoro è stato fedele alle tecniche tradizionali e all’esecuzione degli scatti negli anni ’60. Le fotografie sono state scattate ovviamente in pellicola e quindi sviluppate. A partire dai provini sono state scelte le foto, sviluppate artigianalmente dalle sapienti mani del Laboratorio De Stefanis di Milano, “tagliate” secondo la volontà dell’artista, portate a Cisternino, dove l’autrice vive, perché le valutasse e approvasse, e poi riportate a Genova, incorniciate, archiviate e poi allestite a Casale Monferrato. Con Lisetta è stata anche l’occasione per fare chiarezza sui due viaggi, per puntualizzare momenti e luoghi, per ricostruire la sua geografia personale di Israele».
Gli ebrei arrivati dall’Europa dopo la Shoah provenivano da nazioni molto distanti, avevano tradizioni molto diverse. E questo è evidente in alcune immagini. Ne avete parlato con l’autrice?
«Lisetta aveva un profondo interesse per lo Stato d’Israele, certamente in quanto ebrea, ma anche perché lo considerava un fenomeno sociale unico. Dopo i viaggi come pianista inizia un corso di lingua ebraica proprio per poter comprendere al meglio l’oggetto del suo futuro lavoro fotografico. È interessata a cogliere tutti gli aspetti che incontrerà: le sue radici famigliari, la promessa di una nazione che accoglie gli ebrei di ogni parte del mondo con i propri differenti bagagli religiosi, culturali, identitari. Ugualmente cerca un riscontro al contrasto tra l’esperienza socialista dei kibbutz, la modernizzazione e l’occidentalizzazione delle nuove generazioni del Paese e la tradizione degli ebrei ortodossi. Torna in Italia con l’idea di un luogo pieno di contraddizioni che ben emerge da questa mostra. Le sue fotografie ci trasmettono la complessità di uno Stato dove convivono popoli eterogenei, provenienti da ogni angolo del mondo con culture e tradizioni diverse: Russia, Polonia, India, Italia, Etiopia, una convivenza che inevitabilmente contiene contrasti, dissidi, divergenze di visione fra le varie sensibilità e popolazioni».
Il primo reportage è del 1962, il secondo del ’67, poco dopo la fine della Guerra dei sei giorni. Che differenze ci sono, nelle immagini e nello sguardo della fotografa?
«Lisetta Carmi torna in Israele nel 1967, come reazione alla Guerra dei Sei giorni, che si è conclusa appena un mese prima. Visita i campi palestinesi a Gaza e dedica attenzione soprattutto ai bambini. Di fronte ai grandi eventi, della vita personale come della storia, Lisetta si è sempre schierata dalla parte di chi è più fragile, di chi soffre e di chi lotta contro alle disuguaglianze. Anche in questo caso empatizza fortemente con i profughi palestinesi e decide che non si recherà più in Israele, che per lei diventerà la “Terra dei due Popoli”, con cui ha ancora un rapporto irrisolto. I due reportage hanno molto in comune, ma restituiscono i due sguardi dell’autrice. Nel primo caso è evidente la promessa di uno stato aperto, inclusivo, mosso dalla visione di una grande nazione capace di mantenere relazione con le tradizioni ma di essere innovativo, occidentalizzato, all’avanguardia tecnologica, democratico. Nel secondo viaggio sono evidenti i segni della guerra, nel contesto architettonico-urbano come negli sguardi delle persone. Non va dimenticato però come molti grandi fotografi sanno restituirci le molteplici sfaccettature della vita con vicinanza, con empatia appunto, con la capacità di catturarci e portarci ad essere li, dentro alla foto, capaci di sentire ciò che il soggetto osservato sente a sua volta ma senza giudizio, come solo le persone veramente sagge e libere sanno fare. Dell’amore per tutti gli esseri umani, dell’essere dichiaratamente di parte e allo stesso tempo non giudicante, Lisetta Carmi ne ha fatto il suo progetto di vita».