L’arte da immaginare e l’esperienza nel cinema. La bellezza di Venezia. La memoria e il futuro. Parla Roberto Cicutto, il presidente della manifestazione. Al via il 23 aprile

Roberto Cicutto, presidente della Biennale di Venezia dal gennaio 2020, è su Skype, alle sue spalle vedo una porzione di parete con quattro quadri, due dal fondo blu e due dal fondo ocra, vorrei chiedergli cosa sono – mi sento in un gioco enigmistico, intuisco una immagine, non sono sicura – mi avvicino allo schermo per vedere meglio, esattamente come mia nonna alzava la voce quando telefonava ai cugini del Sud America. Cicutto, sobrio, sorridente, elegante, chiede «Mi vede?», io millanto un problema di connessione – il rapporto tra contemplazione, distrazione e connessione Internet debole è avvincente - e cominciamo.

 

È andato via da Venezia uscendo dal portone del Liceo Marco Polo, ed è rientrato, molti anni dopo, da quello di Ca’ Giustinian, come Presidente della Biennale. Uno stargate. Cosa è cambiato nel frattempo?
«A Venezia o a me?».

 

A Venezia e a lei, ma prima di tutto a lei.
«Quando sono arrivato a Venezia, due anni fa, era più o meno la fine di febbraio, non era ancora partito il primo lockdown, ma la città era già deserta. C’era un accenno di acqua alta, pioveva, ho sentito l’umidore nelle ossa che ben conoscevo e mi sono avventurato intorno a Ca’ Giustinian, verso Campo Santo Stefano, dove la prima bella sorpresa è stata che il bar che era diventato prima una specie di fast-food e poi una rosticceria era tornato a essere un bar, quello che si chiamava bar De Vidi ed era il bar della mia infanzia. Così ho rivisto, sedute a quei tavolini, le figure di mia madre e delle sue amiche e ho detto non è cambiato assolutamente niente per fortuna. Tranne quel deserto pazzesco. La città nei suoi difetti è cambiata pochissimo, nelle sue virtù non l’ho ancora completamente scoperta, però sento che c’è una specie di forte conservazione del Dna ma anche una forte contaminazione che costringe questo Dna a far finta, almeno, di essere diverso, più inclusivo, più sperimentale. La cosa che mi fa paura è che, rispetto alle buone intenzioni prodotte dalla situazione pandemica, la caduta verticale per tornare a vecchie abitudini e dimenticarsi dei buoni propositi può essere molto veloce, ci vuole molta vigilanza».

 

Da parte di chi?
«Da parte dell’amministrazione comunale, dalle autorità di pubblica sicurezza e sanitarie, ma anche le istituzioni culturali».

 

Cosa significa aver fatto o essere stato - scelga lei tra avere e essere - produttore cinematografico?
«Una scuola di vita, perché fare un film, ne ho fatti 100 e ne ho distribuiti 400, è, ogni volta, costruire un mondo ogni volta, e poi affidarlo ad altri. L’esperienza di Biennale è simile. Si costruiscono ogni anno cinque mondi – c’è l’alternanza tra Arte e Architettura. Questo senso di caducità, la sensazione che fatica e lavoro possano avere una data di scadenza, ci ha spinto a inventarci il Centro Internazionale per la Ricerca sulle Arti Contemporanee nel quale le idee e le storie, che tutti i curatori mettono in campo, siano a disposizione di chi vuole approfondirli».

 

Avrebbe potuto fare il produttore cinematografico a Venezia, o a Venezia si può fare solo la Biennale per costruire mondi e progettarne altri a partire da quelli?

«A Venezia si può fare il produttore cinematografico se sei un bravo produttore esecutivo a servizio di altri».


C’è un film, tra quelli che ha prodotto, al quale è particolarmente legato?
«Parlo degli italiani perché al di là del film, c’è il rapporto con i registi. Prende il sopravvento. La lunga storia d’amore e amicizia e amorosi intenti con Ermanno Olmi è sicuramente stata la più importante della mia carriera. Poi si sono instaurati nel tempo rapporti con altri artisti. Jane Campion, per esempio, che quest’anno ha 12 nomination all’Oscar. Volevamo a tutti i costi comprare un film, ”Sweetie”, ma chiedevano una cifra mostruosa per i diritti italiani che non volevamo affrontare con la Mikado. Quando il film fu presentato a Cannes fu un flop clamoroso, sentivamo tum tum tum, sedie che scattavano al ritmo delle persone che si alzavano. Lo abbiamo comprato lo stesso, però, e da quel momento Campion è diventata un’amica e abbiamo lavorato molte altre volte assieme».

 

Prima parlava di fare il produttore come costruire il mondo, e della Biennale come costruzione del mondo, è dunque un uomo abituato al fatto che le cose finiscono?
«Che finiscano e continuino. La Biennale è una, e include tanti mondi che proseguono nel Centro Internazionale per la Ricerca sulle Arti Contemporanee che a loro volta produrrà altri mondi, cioè altri contenuti. L’esperienza di Archèus, l’istallazione immersiva di Damiano Michieletto a Forte Marghera, va esattamente in questa direzione, prescinde dalle intenzioni e dal controllo dei direttori artistici».

 

Restiamo sulla costruzione dei mondi, che cos’è stata l’esperienza di Cinecittà?
«Quando sono arrivato nel 2009 era una società in grande difficoltà che però univa industria e cultura in maniera straordinaria. Forse, Cinecittà è stata nella storia d’Italia la prima vera partecipata prima dell’Iri perché realmente, quando è stata concepita, non per ragioni nobilissime dal “capo supremo”, aveva questo schema di società partecipata. Così ci siamo occupati, prima di salvarla dalla chiusura, di finanziare l’archivio e di promuovere il cinema italiano all’estero e di altri progetti che riguardavano il braccio più specificamente industriale e la natura degli eventi che producevamo. È stata per me l’occasione di misurarmi con la gestione di una società pubblica, e ho scoperto, molto di più di quando maneggiavo soldi miei, quale sia la responsabilità nel maneggiare denaro pubblico e tentare di valutare un modello di “business” – non è una bella parola ma tant’è – che non tradisca le origini del luogo ma che non si faccia attanagliare dalla demagogia dell’intoccabilità. Cinecittà è stata per me una meravigliosa esperienza di “gestione” di rapporti umani per un fine lavorativo».

 

Che relazione c’è per lei tra passato e futuro, memoria e progetto?
«Vuole che parli per sette ore e mezza?».

 

Se ci limitiamo a Biennale?
«Se guarda a come abbiamo accolto ciò che nella gestione precedente di Baratta era stato iniziato, la valorizzazione dell’archivio per esempio, capisce che per me non è una cosa importante ma importantissima. Ho ritrovato in parte l’esperienza straordinaria fatta a Cinecittà con l’Archivio Luce».

 

Altri paralleli?
«Una coincidenza abbastanza strana. Sono arrivato a Cinecittà poco prima del 90simo anniversario della fondazione dell’Istituto Luce, quest’anno sono i 90 anni dalla fondazione della Mostra del Cinema, insomma arrivo sempre quando qualcuno compie 90 anni, e la prima cosa che faccio è capire quanto rimane e quanto serve di quei novanta anni per inventare modelli nuovi. Non è guardare al passato per immaginare il futuro, è conoscere. È così che si intuiscono i percorsi che oggi hanno bisogno di altri tipi di conoscenze, tecnologiche, interazione e comunicazione. Non c’è differenza per me tra passato presente e futuro, sono una cosa sola».

 

Le sue prospettive di Biennale?
«Sono passati questi primi due anni in un nanosecondo, ne restano altri due... Le prospettive sono quelle di aprire strade nuove e valorizzare quelle trovate nella speranza che chi viene dopo le trovi ancora attuali e le faccia crescere ancora. Così è successo a me. Non dico che alla fine della mia presidenza voglio vedere l’Arsenale completamente restaurato dove tutti felici e contenti facciamo cultura, impresa, artigianato, vita civile, sarebbe utopia. Io penso alla continuità, e la continuità è un obiettivo che ovviamente significa infrastrutture e professionalità».

 

È stato pesante il ritardo causa pandemia della Biennale di Alemani?
«Ma no, non ce ne siamo neanche accorti, abbiamo lavorato ogni giorno.

 

C’entra Venezia nella struttura della Biennale così come la conosciamo?
«Mi perdoni, anche un cagnetto che porti fuori, se è a Venezia fa pipì in modo diverso che in qualsiasi altra città. Ha odori diversi, Venezia rende unico tutto, è inevitabile».

 

Inevitabile. Morte a Venezia?
«No, il contrario. Tutti giorni viviamo Venezia in maniera molto profonda, perché ci siamo dentro e perché ogni mossa che facciamo diventiamo santi o demoni. Il grande pericolo è pensare che la Biennale sia l’unico motore alternativo a un certo turismo. Venezia ha una ricchezza immensa. Basterebbe mettere in fila l’elenco delle attività e degli appuntamenti per avere in cartellone l’offerta culturale più ricca del mondo, credo. C’è tutto. Quando metti insieme la Biennale, e tutte le numerose e qualificate istituzioni veneziane, che vuoi di più. Venire a Venezia e fare cose anche molto diverse fra loro ti fa comunque respirare la stessa aria carica di un’unica e irripetibile ricchezza di cultura e bellezza».

 

Rispetto al suo arrivare al novantesimo anniversario, mi viene in mente che il significato di 90 più comune è quello della smorfia napoletana. 90 è la paura.
«Io sono veneziano, non sono napoletano, anche se adoro Napoli e mi piacerebbe essere anche napoletano, oltre che romano, però la superstizione non mi appartiene. E ricordiamoci che la mostra di Architettura dello scorso anno era la 17sima, ed è stata la mostra più visitata di sempre».

 

Ha ragione, la paura non è quella che fa novanta ma l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra in corso.
«La Biennale di Venezia sta collaborando e collaborerà in ogni modo con la Partecipazione nazionale dell’Ucraina alla 59.Esposizione Internazionale d’Arte. È il nostro modo per manifestare sostegno al popolo ucraino. La Biennale è vicina a chi in Russia coraggiosamente si oppone alla guerra. Fra di loro, artisti e autori di tutte le discipline, molti dei quali sono stati in passato ospiti della Biennale. Non chiuderemo mai la porta a chi difende la libertà di espressione».