Dalla Prima indagine sulle vittime di abusi nei mesi della chiusura l’effetto della coabitazione forzata. Per molte il la pandemia ha rappresentato uno spartiacque: chi ha trovato la forza di denunciare, chi si è salvata grazie alla non convivenza. E racconta: «Il Covid mi ha salvata»

Il 9 marzo 2020 l’Italia assediata dal Covid-19 si è chiusa improvvisamente in casa: fino al 18 maggio tutte le attività tranne quelle considerate essenziali sono state sospese, gli spostamenti vietati. Che cosa è accaduto in quei due mesi abbondanti alle donne vittime di violenza da partner o ex?

Davanti alla drastica diminuzione delle chiamate al 1522 e delle richieste ai centri antiviolenza se l’è chiesto Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste, una delle massime esperte di violenza contro donne e bambini e molte pubblicazioni alle spalle. Con Marie-Josèphe Saurel-Cubizolles, epidemiologa sociale a Parigi, tra le ricercatrici che hanno coordinato la prima grande inchiesta francese sulla violenza contro le donne, in tempi brevissimi ha organizzato una ricerca. Ne è venuta fuori la prima indagine in Europa sul tema. È composta da tre parti. La prima è un’inchiesta quantitativa con questionari strutturati, iniziata il 3 giugno, poco più di due settimane dopo la conclusione del lockdown, e terminata il 5 settembre, a cui hanno partecipato 292 donne, che si erano rivolte ai centri del Friuli Venezia Giulia: Goap-Gruppo operatrici antiviolenza e progetti di Trieste (44 per cento), Sos Rosa di Gorizia (15 per cento), Da Donna a Donna di Ronchi dei Legionari (8 per cento), Voce Donna di Pordenone (25 per cento) e Voce Donna di Tolmezzo (7 per cento).

La seconda parte è uno studio qualitativo con colloqui non direttivi, tutti realizzati dalla ricercatrice e operatrice del Goap Martina Pellegrini, a cui hanno partecipato 20 donne intervistate tra il 15 gennaio e l’11 febbraio 2021.

Infine, un’intervista collettiva alle operatrici dei centri svoltasi il 19 maggio 2021. Queste ultime non hanno mai interrotto la loro attività, da subito hanno riorganizzato le modalità di lavoro imparando a usare nuove tecnologie e rivelandosi fondamentali nel percorso di uscita dalla violenza: «Ringrazio il centro per il sostegno che mi ha dato e per quello che mi dà», ha detto una donna. «Non è che mi avete salvato la vita, me la sono salvata da sola, ma mi avete aiutato tanto».

Lo sguardo della ricerca non si è limitato al lockdown, ma ha indagato anche il prima e il dopo, dimostrando che la violenza non si riduce ad atti isolati di aggressione fisica, ma è un continuum che risponde alla volontà di dominio dell’uomo sulla donna e che è fatto di umiliazioni e denigrazioni, pressioni e controlli sulla vita quotidiana, minacce e ricatti, in un ciclo che tende a ripetersi e che si snoda in una fase di costruzione della tensione, cui segue l’esplosione della violenza e successivamente la «luna di miele» con pentimenti e promesse che illudono le donne e spesso sono difficili da comprendere all’esterno.

Racconta Viola: «Non è che è violento 24 ore su 24, 7 giorni su 7. È ciclico, prima la combina grossa, poi c’è la settimana da pecorella: compagno perfetto, amorevole, non succederà mai più. Quindi ricomincia: è un ciclo che finisce male». E che coinvolge anche i figli e le figlie: dalle risposte delle donne emerge che la metà dei bambini sono oggetto di minacce, due terzi assistono alle violenze nei confronti della madre e la metà subiscono violenze dirette da parte del padre. Le intervistate raccontano di bambini spaventati che intervengono a loro difesa o che autonomamente chiamano i carabinieri, ma la testimonianza forse più terribile è quella di Sabrina, a cui il padre di suo figlio, già separato, non voleva dare l’autorizzazione al trapianto d’organo, costringendola a procedure complesse per ottenerla dal Tribunale per i minorenni, con il timore di non fare in tempo.

I figli, il cui arrivo segna un punto di svolta nella relazione di coppia con l’intensificarsi della violenza, rappresentano una motivazione forte a cercare aiuto e a separarsi, ma anche il principale ostacolo all’uscita dalla violenza, per la paura di ritorsioni, di cui la cronaca abbonda, ma anche per la convinzione profonda, sebbene non sostenuta da evidenze scientifiche, che la presenza della figura paterna sia necessaria per la crescita anche se si tratta di un uomo violento. Convinzione radicata in un contesto sociale caratterizzato da una lunga tradizione di rapporti di forza disuguali tra uomini e donne, certamente non generati dalla pandemia, ma che la pandemia ha fatto emergere e rafforzato, se il Global gender gap report 2021 ha calcolato che serviranno 135 anni, 35 in più di quanto era stato previsto prima del Covid-19, per raggiungere la parità di genere.

Durante il picco della pandemia la violenza tra le donne conviventi (in tutto 104) è aumentata nel 28 per cento dei casi, costringendole a vivere momenti di ansia, collera, paura e tanta sofferenza, mentre nel 60 per cento è rimasta stabile e nel 12 per cento è diminuita. Ma il Covid-19 ha rappresentato una sorta di spartiacque, come racconta Monica: «Io dico sempre che per fortuna, per me, c’è stata questa pandemia perché ha fatto sì che venisse fuori velocemente qualcosa della quale, altrimenti, avrei impiegato 13 anni ad accorgermi. Devo ringraziare il Covid-19 per tante cose, so che è brutto da dire, però mi ha salvato la vita, se non ci fosse stato io non avrei mai preso il coraggio di questa cosa».

Il confinamento - si legge nella ricerca pubblicata da Rosenberg & Sellier con il titolo “Pensare la violenza contro le donne. Una ricerca al tempo del Covid”, Torino 2021 – è stata l’occasione di una presa di coscienza profonda che si è tradotta in decisioni impegnative, a volte con una portata definitiva: denuncia, accoglimento in casa rifugio, separazione. «È come se il Covid-19 avesse dato una spinta alle donne, avesse velocizzato il loro processo di consapevolezza», ha dichiarato un’operatrice. A 7-8 mesi dal primo lockdown nessuna di loro conviveva più con l’autore della violenza.

Tra le donne non conviventi (in tutto 134) la tendenza invece è stata opposta: la violenza è aumentata solo nell’8 per cento dei casi, è rimasta stabile nel 36 per cento ed è addirittura diminuita nel 56 per cento dei casi. Nonostante fossero sole a gestire tutto, le donne hanno vissuto questo momento «benissimo», si sentivano protette, finalmente al sicuro: il lockdown ha rappresentato una tregua momentanea (Vanessa: «Il Covid-19 è riuscito a tenermelo lontano, ho potuto agire senza aver paura di essere perseguitata fisicamente») e ha dimostrato che una misura cautelare, per essere efficace e proteggere le vittime, dev’essere applicata con lo stesso rigore con cui si è applicato il distanziamento fisico per proteggere la salute pubblica. Purtroppo, invece, con il ritorno alla normalità la violenza è nuovamente cresciuta e si è normalizzata anche l’attenzione della società e delle istituzioni, capaci evidentemente solo di reazioni emergenziali a un problema che richiede risposte strutturali. E che richiede, come la ricerca ha fatto, di prendere sul serio la paura delle donne e di riconoscerne la forza e la capacità di resistenza nonostante la legittimazione, la minimizzazione, talora persino la negazione che quotidianamente si esercitano. Le loro parole sono al tempo stesso un atto d’accusa e un manifesto di coraggio.