La terza stagione del programma di Rai Due con Emanuela Fanelli è una continua giravolta sul politicamente corretto, fatto per sottrazione. Un gran ritorno che insegna, con eleganza, come ridere sulla banalità dei luoghi comuni

Valerio Lundini e la scorrettezza da Oscar

Chissà cosa avrebbe fatto Will Smith se anziché alla cerimonia degli Oscar fosse stato seduto nello studio stropicciato di Valerio Lundini. Altro che schiaffoni in faccia per un comico che comincia la sua terza stagione su Rai Due con tre ragazzi neri e guardando dritto davanti a sé dice: «Basta polemiche: vorrei chiarire che tra me e loro non c’è nessuna differenza». Perché essere orrendamente scorretti, scomodi, fastidiosi e al contempo irresistibili fino alle lacrime ci vuole la stoffa, altro che smoking.

 

In questo nuovo ritorno, che è sembrato incerto per mesi e che merita un applauso liberatorio dello spettatore esausto dalla solita abbuffata di inutilità, Lundini abbandona l’escamotage iniziale della Pezza, e si presenta senza l’artificio primordiale del gioco da sostituto di altri programmi. E così com’è, giacchetta e occhiali, il consueto tono serioso, la risatina a mezza bocca, la perenne aria di chi è lì, certo, ma potrebbe essere comodamente altrove, srotola un tappeto di scorrettezze tali che se passasse da quelle parti il gigantesco Ricky Gervais probabilmente gli stringerebbe la mano.

Ho visto cose
Emanuela Fanelli di Rivombrosa
17/5/2021

Il rapinatore che continua a delinquere perché se nasci ladro è difficile correggere la tua natura, la coppia di non vedenti che si è fatta truffare da un tatuatore perché tanto non possono guardare il risultato e altri terrificanti situazioni similari fanno sentire fisicamente il rumore della marcia innescata, dell’accelerazione sull’asfalto televisivo, del pedale premuto senza timore alcuno, perché se sai guidare vai anche sulle macchie d’olio.

 

È una capovolta continua, un’esibizione parodistica del politicamente corretto fatto per sottrazione, in cui si sgretola l’aspetto plateale, alla buona, che troppi oggi si sentono scioccamente in grado di sostenere, per lasciare il nocciolo, la sostanza finale, neanche fosse una centrale nucleare pronta a esplodere.

 

Mostrare il peggio nella sua placida normalità, senza sceneggiate, cartelloni ed effetti annuncio ti presenta il quadretto di inadeguatezza quotidiana in cui siamo immersi giorno dopo giorno, trasmissione tv dopo trasmissione tv. Come direbbe qualcuno, la banalità del male. E in queste meritorie giravolte c’è lei (inchino), Emanuela Fanelli (applauso). Che interpreta una donna, umiliata dal maschio che come spesso accade le spiega la vita, ma lei si riscatta con una prova d’attrice su una poliziotta che punta il dito contro gli uomini che la etichettano come sesso debole. «Non chiamatemi agente, io sono un’agenta». Capolavoro. Bene, bravi, tris.  

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