Temevamo che dopo lo sdegno all’orrore arrivasse la risacca. Come nel passato. Ma ciò che accadde in quell’estate cambiò tutto

Quel giorno dovevo per forza stare a Palermo. Lunedì 25 maggio nella chiesa di San Domenico si sarebbero celebrati i funerali di Giovanni Falcone, della moglie, degli agenti della scorta. Quello stesso giorno ci sarebbe stata la votazione decisiva, dopo ben 15 scrutini a vuoto, per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

 

Da meno di due mesi ero deputato e, quindi, uno dei grandi elettori. Dovevo però essere lì, non alla Camera. Nove mesi prima c’ero stato per un altro funerale, quello di Libero Grassi, ucciso dalla mafia per la sua ferma opposizione al racket: quella mattina il corteo funebre prese avvio dalla sua fabbrica di pigiami per giungere in via Alfieri dove era stato ucciso appena uscito da casa.

Qualcosa quel giorno si incise per sempre sulla pelle: il feretro accompagnato dalle operaie e dagli operai della Sigma, gli amici della famiglia, i compagni di tante battaglie, i rappresentanti delle istituzioni. Eppure del tutto assente la città con i suoi commercianti e industriali, al passaggio le saracinesche dei negozi restavano alzate. Per Cosa nostra quell’omicidio si rivelava un investimento riuscito: se nella Sicilia orientale sull’esempio di Capo d’Orlando iniziavano a nascere associazioni antiracket, a Palermo per più di un decennio solo qualche isolata denuncia. Ma era il 1991.

 

E dopo Capaci? Avrebbero di nuovo funzionato i conti di Cosa nostra? Il copione sarebbe stato ancora quello dei tanti delitti eccellenti, immediata indignazione, attenzione mediatica per qualche giorno, a volte nuove leggi come dopo gli omicidi di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, ma sostanziale indifferenza della società siciliana? La reazione alla violenza mafiosa aveva fino a quel momento coinvolto ambienti ristretti della società civile e del mondo politico. Sarebbe stato ancora così?

 

Già dal giorno dei funerali bisognava verificare la qualità e l’intensità della risposta dei siciliani. In quel fine maggio del 1992 le cose vanno in un altro modo: per la prima volta nella storia secolare della mafia e dell’antimafia si attiva un moto d’opinione che attraversa l’intero Paese: la questione mafiosa appartiene al sentire comune della stragrande maggioranza degli italiani. E, soprattutto, si manifesta in Sicilia una reazione che emerge dalle pieghe profonde della società: è questo il fatto nuovo che indica un punto di non ritorno. Lo spartiacque.

 

Cinquantasette giorni dopo viene via D’Amelio. Un colpo ancora più duro, perché annunciato e, quindi, evitabile. Un altro lunedì davanti al Palazzo di giustizia, Nino Caponnetto, il padre del pool antimafia, con la sua flebile voce annuncia che «è tutto finito»: quello che in tanti pensavamo in quel momento. No, non è possibile la fine di Paolo Borsellino. Cosa si poteva dire di altro? Ma dopo il momento del disorientamento, quel movimento continua ad agire. Ancora più forte è la consapevolezza che nulla può più essere come prima. Ancora più forte è la pressione su Parlamento e istituzioni.

 

Spesso, nella narrazione dell’antimafia, sicuramente quella mainstream, il contrasto alla mafia coincide solo con le indagini, i processi, le sentenze; ovviamente questa dimensione ha tratti identificativi e contorni certi, a differenza dei movimenti della società civile a composizione eterogenea, non organizzati in stabili strutture, attraversati a volte da prospettive contrastanti.

 

Però questa è la novità di quella stagione, aver messo sul campo un’enorme forza emotiva, un nuovo protagonismo, una volontà di incidere nella nuova fase della lotta alla mafia. Donne e uomini, ragazze e ragazzi al di fuori delle istituzioni. È così che inizia a restringersi l’area di consenso delle mafie, che si fa sentire agli uomini di Cosa Nostra la crescente ostilità della società e il loro isolamento determinando la crescita delle diserzioni. È anche su questo terreno che si è giocata una partita decisiva.

 

Opportunamente Michele Santoro ha denunciato la «rimozione dal quadro tracciato dalle inchieste di ciò che ha realmente significato la prima rivolta della società civile contro la prima Repubblica». Quel movimento della società civile può incidere solo se riesce ad incontrarsi con le istituzioni. Ma quali? Con la politica, o almeno con una larga parte di essa, non è facile di fronte alle notizie che vengono dalle indagini di Milano e, dall’altro lato, per le responsabilità nel non aver per tempo contrastato la mafia e sostenuto l’innovativa esperienza del pool antimafia quando non vi sono state evidenti complicità. Ci sono altre istituzioni con cui interloquire.

 

Gian Carlo Caselli alla guida della procura di Palermo rappresenta una possibilità di speranza, offre l’immagine di uno Stato finalmente credibile e efficiente. Dopo l’azione di contrasto degli anni 1992-96 non solo la strategia stragista era stata abbandonata (perché sconfitta) ma la mafia viveva la crisi più grave della sua storia. Spiega lo storico John Dickie: «Cosa nostra era sull’orlo della sconfitta». Quella che negli anni Ottanta era stata una minoranza virtuosa sembrava essere diventata maggioranza. E in tanti avvertivamo l’eccezionalità del momento, la concreta possibilità della fine della mafia. Ma l’onda lasciò il posto alla risacca…

 

Quanto di quella spinta ha segnato i decenni successivi sino ad oggi? L’emozione da sola non poteva bastare, doveva trasformarsi in strategia e organizzazione: è quanto accaduto con Libera di don Luigi Ciotti con l’importante apporto dei familiari delle vittime; è quanto accaduto con il movimento antiracket con le sue associazioni. Esperienze ormai di lunga durata.