Questo pezzo fu pubblicato da L’Espresso del 7 giugno 1992. Nella rubrica “Bestiario” si passò in rassegna con il rigore del cronista il clima intorno al magistrato e al pool. Annotando anche l’ondivaga lettura “politica” dei vari fronti

Giovanni Falcone lasciato solo davanti ai suoi carnefici? Falcone ucciso moralmente da quanti lo calunniavano? Se questo è vero, Falcone ha cominciato a morire molti anni fa. Il 13 aprile 1985, dieci mesi prima che a Palermo abbia inizio il maxiprocesso a Cosa Nostra, intervistato da Repubblica, Falcone descrive così l’ambiente che gli sta intorno: «Il clima è tale che spesso bisogna stare attenti anche alle persone che ti circondano».

 

Contro il pool di Palermo è in atto una campagna con due obiettivi. Il primo è mettere a rischio la vita dei pentiti. Dice Falcone: «C’è persino chi obbietta sull’opportunità di custodire i pentiti nelle strutture extracarcerarie. Quante ne sono state dette e scritte! Che conducono una vita da nababbi, che pasteggiano a champagne.

 

Quando avevamo Buscetta in Italia, subimmo pressioni affinché il boss venisse rinchiuso in un regolare istituto di pena». Il secondo obiettivo della campagna, spiega Falcone, è il maxiprocesso: «Sorprende, in particolare, un’affermazione che viene fatta ad alto livello secondo la quale i maxiprocessi costituiscono una risposta rudimentale al fenomeno della criminalità organizzata. Sono sorpreso e, debbo dirlo, amareggiato». Nell’agosto 1985, intervistato da Panorama, Falcone ritorna sul tema della campagna contro il pool antimafia. Dice: «Certe manovre sono passate addirittura dalla stampa. Quando avevano cominciato a parlare i pentiti di basso rango, si è cercato di screditarli definendoli pazzi. Poi sono arrivati i grandi pentiti come Buscetta e Contorno. E allora si è passati a invocare il garantismo. Un termine che suona perlomeno strano in una città come Palermo, che ha il record mondiale delle assoluzioni per insufficienza di prove». All’inizio del 1986, quando il maxiprocesso sta per aprirsi, sul Giornale di Sicilia avvocati e docenti universitari si scatenano: «I processoni diventano inquisizione»; «i processi mastodontici non danno alcuna grande garanzia nell’accertamento della verità»; «nel maxiprocesso il giudice istruttore confonde il suo ruolo con quello dell’accusatore»; la normativa sui pentiti determina «una situazione aberrante in cui il processo penale degrada ad arnese di polizia, ad espediente di caserma dove trovano posto spie, delatori, confidenti, criminali promossi a collaboratori di giustizia».

 

Due anni e mezzo dopo, a giudizio concluso, Alfonso Giordano, presidente del maxiprocesso, dice al Corriere della Sera: «Alzando la bandiera del garantismo, sono state scagliate, soprattutto a Palermo, odiose campagne di stampa contro I giudici che hanno creduto nel loro lavoro mirando al cervello di Cosa Nostra». L’intervista è del 1° agosto 1988. In quei giorni è in atto un’ennesima campagna contro Falcone e gli altri magistrati del pool che si contrappongono al nuovo capo dell’ufficio istruzione, Antonino Meli. Il 31 luglio, il Giornale di Milano descrive i giudici del pool così: «Super-magistrati, super-scortati e super-specializzati nello scardinamento delle cosche», «un ristretto e impenetrabile club di toghe», giudici «ammantati di speciali meriti antipiovra». Su tutti campeggia Falcone, ossia «Mito», «Fenomeno», «Falconcrest»: «La sua scorta è leggendaria», «la stampa l’ha intervistato a più riprese e osannato». Ma dietro Falcone chi c’è? Il Pci, naturalmente. Scrive il Giornale: «I comunisti mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone». [...] Il 2 agosto 1988, ancora il Giornale giudica così il lavoro di Falcone e del pool: «Indagini che vanno a rilento. Inchieste che mancano il bersaglio. Rinvii a giudizio che si trasformano in clamorose assoluzioni». Il 3 agosto compaiono altri due capi d’accusa: «Cultura del sospetto» e «oltranzismo antimafioso».

 

Quel giorno, il Csm decide di non decidere tra Meli e Falcone. [...] In attesa del secondo round davanti al Csm, continua il martellamento de il Giornale su quello che viene chiamato «il clan dei pool antimafia». La deputata democristiana Ombretta Fumagalli Carulli stampa a ripetizione atti d’accusa contro Falcone. Spiega che negli uffici giudiziari di Palermo trionfa un clima «maccartista», per fortuna contrastato da Meli, «magistrato spigoloso e tradizionale anche nella sua ostinazione d’inceppare quel meccanismo perverso». Il 14 settembre 1988, nel giorno della seconda salomonica decisione del Csm, il consigliere Vincenzo Geraci, sostenitore di Meli, dice alla Stampa: «Questi pool possono facilmente trasformarsi per la loro compartimentazione in tanti corpi separati e riservati all’interno della magistratura». Il giorno dopo, il senatore radicale Gianfranco Spadaccia dichiara: «L’impegno del giudice Meli di attenersi alla legge è l’unica affermazione rassicurante in un periodo in cui ci siamo dovuti abituare a giudici che invece teorizzavano la violazione della legge. La mafia non si può vincere con sistemi mafiosi». [...] Passano altri due mesi, e il 23 novembre 1988 il pool di Falcone è raso al suolo dalla sentenza della Cassazione che nega la struttura unitaria di Cosa nostra. Nel suo commento su il Giornale, la deputata Fumagalli si scaglia ancora una volta contro Falcone, «che riteneva d’essere il solo a poter distinguere il grano dal loglio, con evidenti pericoli di condizionamenti anche politici. Pure il Corriere della Sera è acido nei confronti di Falcone. Nell’articolo di fondo del 25 novembre si legge: «Falcone ha appannato il ricordo dei risultati conseguiti con la presunzione ostentata della sua indispensabilità». [...] Nel gennaio 1989, il pool non esiste più. Falcone è solo. Politici e giornalisti ricevono lettere anonime che lo diffamano. Dicono i “corvi”: per diventare il numero tre della procura palermitana, Falcone si sta mettendo d’accordo con chi ha distrutto il pool.

 

Poi, il 21 giugno 1989, l’attentato con la bomba al villino dell’Addaura. L’ordigno non esplode, ma raggiunge il risultato di far apparire Falcone un morto che cammina. Un morto-vivo senza pace. In ottobre, infatti, Falcone viene sospettato d’una scorrettezza grave: quella d’aver informato Andreotti che le rivelazioni del pentito Giuseppe Pellegriti su Salvo Lima sono soltanto calunnie. È il Giornale a picchiare con più foga su questo chiodo. Ecco una batteria di titoli: «Falcone rassicurò Andreotti: una calunnia l’accusa a Lima», «II Pci in rotta con Falcone per la sua “clemenza” con Lima», «A Ferragosto a Cortina Falcone chiamò Andreotti», «Perché Falcone chiamò Andreotti a Cortina?». Trascorrono altri mesi e Falcone si trasferisce a Roma, accanto al ministro Martelli. Cominciano le polemiche sulla superprocura e su Falcone. Ecco quel che il 29 ottobre 1991 scrive sul Giornale di Napoli, di area socialista, il direttore Lino Jannuzzi, a proposito del magistrato e del questore Gianni De Gennaro, «già anima nera di Falcone a Palermo» e candidato a dirigere la Dia, l’Fbi italiana: «È una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxiprocessi, ha approdato al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro i maggiori responsabili della débacle dello Stato di fronte alla mafia. Se i politici sono disposti ad affidare agli sconfitti di Palermo la gestione nazionale della più grave emergenza della nostra vita, è, almeno entro certi limiti, affare loro. Ma l’affare comincia a diventare pericoloso per noi tutti: da oggi, o da domani, quando si arrivasse a queste nomine, dovremo guardarci da due “Cosa nostra”, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto». Domenica 24 maggio 1992, sempre Jannuzzi scrive in morte del magistrato: «La mafia ha fatto un favore ai nemici che Falcone aveva all’antimafia». Amen, così è una certa ltalia oggi. Riposi in pace, caro dottor Falcone.