C’è la violoncellista in prima linea nella difesa dell’ambiente, la scrittrice e attivista culturale che si batte per i diritti degli afrodiscendenti. E poi l’architetto, architetta pardòn, che rivendica la parità ancora lontana tra uomo e donna nella sua professione. E ancora, il regista non binario che si ribella contro il conformismo sessuale e indaga il mondo queer, infine l’artista che valorizza con le proprie opere i siti archeologici trascurati. È lo spaccato di una generazione, i Millennials, abituata da sempre alla precarietà. Cinque artisti e talenti creativi tra i 30 e i 40 anni sparsi per l’Italia, con un minimo comun denominatore: l’impegno.
Comincia nel quartiere romano di Montesacro questo viaggio, nel salotto affollato di spartiti e tappezzato di maschere tradizionali africane di Leila Shirvani. Padre iraniano e madre inglese, a trent’anni la violoncellista è una delle soliste più apprezzate del panorama musicale italiano. Dopo aver collezionato premi internazionali e collaborazioni significative, da Paolo Fresu a Giovanni Sollima, ha ottenuto la cattedra di violoncello al conservatorio di Monopoli, vicino a Bari. Insieme alla sorella Sara, pianista, con cui ha dato vita al duo cameristico The Shirvani Sisters, sta realizzando un progetto che tiene insieme musica e ambiente: una Eco-Accademia nel bosco a Montasola, in Sabina, a un’ora di macchina da Roma, una scuola di alta formazione ecosostenibile con aule in legno, residenze per artisti e un auditorium-serra in vetro. «Era il nostro sogno, ora si può fare», sorride Shirvani, che ha inaugurato il terreno dove sorgerà l’Eco-Accademia con il concerto in Do maggiore di Haydn per violoncello e orchestra, sul palco all’aperto. «Io e mia sorella Sara ci spostiamo in bici e siamo vegane perché gli allevamenti sono il fattore che impatta di più sul piano ambientale. Sarebbe importante che ognuno di noi facesse qualcosa», aggiunge la violoncellista, che qualche anno fa è finita nelle cronache per essersi legata al tronco di un pino, improvvisando un concerto con il suo violoncello per protestare contro l’abbattimento degli alberi.
Un impegno, quello per salvare i pini di Roma attaccati dalla cocciniglia, che porta avanti insieme a un’altra causa: far conoscere al pubblico la musica persiana attraverso lo spettacolo “Persepolis”, in cui le due sorelle Shirvani alternano brani di compositori persiani e brani di autori occidentali connessi con quella cultura, come “Les roses d’Ispahan” di Gabriel Fauré. Un progetto artistico ma anche una forma di protesta contro il governo di Teheran. «Io e Sara in Iran non potremmo esibirci in pubblico come soliste, per una donna è illegale. Ci sono tantissime artiste iraniane che vorrebbero suonare ma è vietato. Per questo abbiamo inventato Persepolis», conclude Shirvani.
È sospesa tra due culture anche Espérance Hakuzwimana, scrittrice e attivista culturale, ha partecipato all’antologia di autrici afrodiscendenti “Future” (a cura di Igiaba Scego, effequ editore) e ha scritto un pamphlet autobiografico sulla propria esperienza di donna nera in Italia, “E poi basta” (People). Ora è al lavoro sul suo romanzo, che uscirà alla fine dell’estate per Einaudi. Nata in Ruanda nel 1991, a tre anni, nel pieno del genocidio, fu adottata da una famiglia in provincia di Brescia, dove è cresciuta fino all’università, a Trento. Dopo la laurea si è diplomata alla Scuola Holden, a Torino, dove tuttora vive. Ha lavorato in radio ed è fra le organizzatrici del Black History Month Torino: a febbraio scorso un mese di iniziative, laboratori, spettacoli per celebrare la cultura degli afrodiscendenti, l’antirazzismo e la multiculturalità.
Esperance Hakuzwimana Ripant (©Giulia Rizzini/KartuPhoto/Rosebud2)
«Attivista culturale? È un modo di essere che passa attraverso le parole. Perché, prima di scrivere, io leggo. E credo nel grande potere delle parole», afferma Hakuzwimana, che ha deciso di intensificare il proprio impegno quattro anni fa, in seguito al raid razzista di Luca Traini, a Macerata, che ferì a colpi di pistola sei migranti di origine sub-sahariana. «Il 2018 è stato un anno terrificante, che ha messo alla prova tutti noi, ci siamo sentiti feriti per l’ennesima volta. Di fronte a quello che era accaduto non potevo restare in camera a leggere i miei libri. E così ho intrapreso un percorso che tiene insieme l’attivismo e l’editoria. Pensavo fossero due mondi lontani e invece ho scoperto che posso essere me stessa incrociando le esperienze».
Talvolta le rivendicazioni si intrecciano, a volte seguono strade parallele. La parità tra uomo e donna nel mondo dell’architettura, ad esempio, è un obiettivo ancora da raggiungere. Ne è convinta Olivia Gori, docente di Designing Public Space Strategies alla Syracuse University di Firenze e cofondatrice dello studio di architettura Ecòl, nel capoluogo toscano, che condivide con il socio Emanuele Barili. I loro interventi si concentrano su spazio pubblico e rigenerazione urbana. «Nel mondo dell’architettura esiste ancora un doppio standard, soprattutto nelle generazioni precedenti alla mia», dice Gori: «Tavoli composti principalmente da uomini, in cui le poche donne vengono interpellate di rado a esprimere le proprie opinioni. E poi c’è anche un tema economico, anche se la discriminazione si sta assottigliando».
Olivia Gori (@dariogarofalo)
Da qualche tempo Gori simpatizza per RebelArchitette, collettivo di “archi-attiviste creative” che coltiva la consapevolezza della necessità della parità nel mondo dell’architettura e che all’ultima Biennale di Architettura a Venezia, l’anno scorso, ha portato al padiglione Italia il progetto “Detoxing the city”, con le esperienze di comunità resilienti di donne. In Italia le professioniste sono molte, infatti, e le architette under 35 iscritte agli ordini italiani superano i loro colleghi maschi. Ma hanno scarsa visibilità e contano meno degli uomini.
Di recente, la nomina di Lesley Lokko a curatrice della prossima Biennale di Architettura, nel 2023, ha offerto l’occasione a un gruppo di architette di lanciare sulla rivista Artribune un appello al ministro della Cultura, Dario Franceschini: che il Padiglione Italia sia curato da una donna dopo otto edizioni consecutive di curatela maschile. Tra le professioniste che hanno risposto all’appello c’è anche Gori: «Immagino un padiglione capace di superare l’impostazione culturale alla quale siamo inconsciamente legati, alla quale siamo stati educati, ovvero capace di superare la storia spesso raccontata dalla parte degli uomini, bianchi, occidentali», sintetizza.
Donne che rivendicano i propri diritti contro schemi consolidati. E donne che si ribellano alla ‘ndrangheta come Rosa, l’inquieta protagonista del film “Una femmina” di Francesco Costabile, presentato nella sezione Panorama all’ultimo Festival di Berlino. E ora in corsa per i David di Donatello per il miglior regista esordiente e la migliore sceneggiatura non originale. Cresciuto a Cosenza, Costabile abita fin dai tempi del Dams a Bologna, dove insegna Grafica e comunicazione in un istituto tecnico.
Francesco Costabile
«La storia di Rosa è anche un po’ la mia», dice il regista, che si definisce non binario, con una identità fluida: «Quando ho letto il soggetto mi sono rituffato nel mio passato in Calabria, dove ho vissuto per 20 anni. Non è stato facile adeguarmi a un’identità di genere che mi voleva vedere come un uomo forte, destino che non era il mio. Da sempre ho cercato di sviluppare idee che parlano di minoranze: geografiche, culturali, sessuali, sociali. Contro potere e schemi patriarcali che influenzano ancora oggi la nostra società».
Il regista, infatti, ha realizzato il suo primo film a 41 anni ma, tra cortometraggi, documentari e collaborazioni, lavora nel mondo dell’audiovisivo da oltre vent’anni, quasi sempre su tematiche gay e queer. Sull’onda di “Una femmina”, ora Costabile sta sviluppando un nuovo film: ”Il fattore T”, sul mondo transgender e la scoperta dell’identità. «Viviamo in un periodo storico in cui tutto sembra pacificato e invece non bisogna abbassare la guardia nella battaglia per i diritti. Anche il cinema ha il ruolo di scuotere le coscienze», conclude il regista.
Per migliorare le cose bisogna cambiare prospettiva, guardare la realtà con occhi nuovi, ribaltare luoghi comuni. Nato e cresciuto a Cambiago, paesino dell’hinterland milanese, Edoardo Tresoldi indaga la relazione tra il paesaggio e la sua sacralità attraverso le forme dell’arte, gioca con la trasparenza delle sue reti metalliche per dialogare con la Storia e valorizzare alcuni siti archeologici trascurati, rivitalizzandoli.«L’Italia ha un patrimonio culturale vastissimo, tutelato dalle sovrintendenze: il mio lavoro consiste nell’utilizzare le possibilità che offre il passato, costruire traiettorie tra i luoghi e le persone che ci abitano», dice Tresoldi.
Edoardo Tresoldi
Dopo gli studi artistici a Milano l’artista si è trasferito a Roma, dove ha lavorato nel campo della scultura, della scenografia e del cinema, per poi tornare nel capoluogo lombardo. Il suo intervento più significativo, finora, è la maestosa scultura trasparente in rete metallica realizzata sei anni fa nel Parco archeologico di Siponto a Manfredonia, vicino Taranto (medaglia d’oro all’Architettura italiana 2018), che ripropone le sembianze dell’antica basilica paleocristiana costruita a ridosso della chiesa romanica esistente. «L’idea non è mostrare un luogo antico ma un’opera contemporanea», sottolinea l’artista: «Tra me e le sovrintendenze si crea una simbiosi a partire da punti di vista opposti ma complementari. Per me tra una cascina abbandonata della Pianura padana e il rudere di un tempio classico non c’è alcuna differenza. Si tratta di due rovine, per materia e per paesaggio. La sfida è riuscire a scardinare lo sguardo istituzionale legato alla cultura della conservazione».
Dopo aver realizzato diversi interventi – tra cui “Opera” (2020) sul lungomare di Reggio Calabria, un colonnato in rete metallica; “Monumento”, colonna monumentale nell’edificio delle Procuratie Vecchie, a Venezia, riaperto al pubblico dopo il restauro a cura di David Chipperfield – ora l’artista è al lavoro nell’area archeologica di San Pietro a Bari vecchia, il principale sito archeologico del capoluogo pugliese, perché si è aggiudicato il bando promosso dal Segretariato Regionale per la Puglia del Mibact. «Per gli abitanti il sito è un vuoto urbano da almeno 40 anni», conclude Tresoldi: «L’obiettivo del mio intervento non è solo mostrare cosa c’era prima, sarebbe riduttivo. Lo scopo non è musealizzare le cose ma portare le persone ad abitare l’archeologia».