Un mestiere che vuol dire libertà. I ruoli che l’hanno reso famoso. L’attesa di un nuovo film di Tarantino. E un sogno: «Una casa a Parigi. O nella campagna romana»

Riflessioni, emozioni, bilanci. E la proiezione nel futuro, tra progetti e incognite. Di recente ha compiuto 60 anni Tim Roth, senza rimpianti né voglia di tirare i remi in barca. «L’idea di abbandonarsi totalmente e vivere la vita così come viene senza scadenze e impegni credo affascini tutti. Talvolta ci ho pensato anche io. Ma noi attori non andiamo mai in pensione: semplicemente arriva un momento in cui nessuno ti vuole scritturare più. Quando accadrà vorrei essere capace di starmene anche io sulla riva del mare tutto il giorno senza pensare a nulla», dice l’attore inglese. Pensieri che lo riportano al suo personaggio in “Sundown”, film che segna una nuova collaborazione col regista messicano Michel Franco, che aveva già incontrato per la realizzazione di “Chronic”.

 

Neil Bennett è in vacanza in un resort di lusso ad Acapulco insieme alla sua famiglia: Alice (Charlotte Gainsbourg) e i ragazzi Colin (Samuel Bottomley) e Alexa (Albertine Kotting McMillan). L’idillio viene spezzato quando Alice riceve una chiamata in cui viene a sapere che la madre è stata portata in ospedale, e così la vacanza si interrompe bruscamente. All’aeroporto, però, Neil dice di aver dimenticato il passaporto nel resort e mentre i suoi si imbarcano, torna indietro per recuperarlo promettendo di seguirli col prossimo volo. In realtà l’uomo affitta una stanza in un hotel fatiscente e inizia a frequentare la spiaggia di Acapulco, dove trascorre le giornate bevendo birra e guardando il mondo attorno a sé.

Charlotte Gainsbourg, che recita con lei nel film, mi ha confessato che guarda se stessa con difficoltà perché, essendo timida, vede tutti i propri difetti. Ma anche che, paradossalmente, è stato proprio il cinema a salvarla da questa timidezza. Per lei come ha funzionato l’approdo alla recitazione?
«Io sono un attore da quando ho memoria della mia infanzia. A scuola c’è sempre un ragazzino che fa il clown: ecco, quello ero io. Usavo questo stratagemma per sottrarmi alle grinfie dei miei compagni che mi picchiavano e maltrattavano ripetutamente. Erano dei veri e propri bulli».

 

Nella sua carriera ha interpretato diversi “villain”, a partire da Mr. Orange ne “Le Iene”. Cosa l’attira di questi personaggi?
«All’inizio ho pensato fosse molto divertente passare dalla parte di quelli che mi menavano, entrare nelle loro psicologie senza che però si facesse male nessuno. Secondo me, i gangster o i personaggi violenti rimangono più a lungo impressi nella memoria degli spettatori, e così finisce che la gente ti identifica con un certo tipo di ruoli e non si ricorda che hai fatto anche molto altro. Sono stati in realtà altri tipi di film e ruoli ad attirare su di me l’attenzione di alcuni registi. Per esempio Quentin Tarantino mi ha chiamato dopo avermi apprezzato in “Rosencrantz e Guildenstern sono morti” e in “Vincent & Theo”, dove interpretavo proprio Vincent Van Gogh».

 

Cosa rende preziosa la sua lunga collaborazione con Tarantino, con cui ha recitato in molti indimenticabili film: “Le Iene”, “Pulp Fiction”, “Four Rooms”, “The Hateful Eight”?
«Il suo tratto distintivo è la capacità di scrivere alcuni dei dialoghi più succulenti che un attore possa sperare di recitare. Per questo io e gli altri colleghi che abbiamo avuto il privilegio di lavorare con Quentin attendiamo con impazienza il suo prossimo film. Sarebbe fantastico farne parte, e ogni tanto ci scambiamo, in una chat comune che abbiamo aperto durante le riprese di “The Hateful Eight”, le nostre speranze al riguardo».

 

Tarantino ha annunciato che il prossimo sarà il film con cui chiuderà la carriera. Se dovesse un giorno seguirlo e non recitare più, invece di andare ad Acapulco dove se ne andrebbe?
«Mi piacerebbe avere una casa a Parigi oppure nella campagna romana. Adoro anche la zona di Alba».

 

Fin dal titolo, “Sundown” parla del tramonto dell’esistenza. Ci ha mai pensato?

«Sì, perché ormai ho 60 anni e come tutti mi faccio delle domande: come sarà la mia vecchiaia? Come la trascorrerò? Quando smetterò di lavorare? Chiaramente la cosa mi spaventa un po’, ma poi vedo colleghi come Ian McKellen che a 82 anni ha appena dato l’Amleto a teatro e penso che ancora ho un pezzo di strada da fare. La mia vita in ogni caso è abbastanza folle, viaggio per il mondo da un set all’altro, e infatti per me la vera vacanza è quando torno a casa in California, dove ci sono mia moglie e i miei figli. Per fortuna abito lontano da Hollywood e così riesco a staccare veramente dal mondo del cinema».

 

Ho letto che suo figlio Hunter ha lavorato in “Sundown” come assistente alla regia. Com’è stato per i suoi figli rapportarsi a un genitore di successo e tentare di seguirne le orme?
«Onestamente non è stato semplice. Mio figlio Jack è a Londra per seguire la carriera di attore, Hunter è più interessato alla regia mentre Michael è un musicista. Sicuramente sono stati influenzati dalla mia carriera, perché quando erano piccoli li portavo sempre sui set insieme a me. Certo non è stato facile per loro lavorare nel cinema, esiste sempre il rischio del confronto col padre, e di nutrire aspettative troppo alte nei loro confronti, ma mi pare che se la cavino abbastanza bene. Naturalmente mi fa un enorme piacere».

 

Si sente un artista?
«Direi di no, penso che fare l’attore sia un lavoro, ma penso che sia un bel lavoro. Ed è affascinante. È assolutamente affascinante. Come descriverebbe un lavoro in cui in un anno sono andato prima in Nuova Zelanda e ho interpretato un padre alcolizzato di un ragazzo che scopre la sessualità, poi sono andato sul set Marvel a interpretare un cinefumetto folle e infine ho terminato un horror con Rebecca Hall che si intitola “Resurrection”? Sa, quando ho scelto di fare l’attore l’ho fatto anche per non dovermi mettere giacca e cravatta e andare in ufficio tutti i giorni, ed è questa libertà che hai sul set che mi piace da morire. Mi piace un po’ meno fare i red carpet vestito di tutto punto, ma fa parte del gioco».