Jihadisti e milizie puntano ai giacimenti della Repubblica democratica del Congo. Il Paese insanguinato dove è atteso Papa Francesco (foto di Marco Gualazzini)

La notte sta accomiatandosi con lentezza dalla Repubblica democratica del Congo. Le nere montagne del massiccio del Rwenzori appaiono ancora indefinite all’orizzonte; in cielo persiste il profilo di una luna trasparente ma, poco a poco, la delicata luce dell’albeggio svela la città di Beni, incastonata a 1.100 metri d’altezza tra il lago Alberto e il lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, tra anatemi esiziali e malvagità politiche. È qui, infatti, che nel 2019 si è consumata la prima epidemia di Ebola in una zona di conflitto e la più feroce per numero di bambini colpiti, e oggi è sempre questa città, nell’estrema parte settentrionale della provincia del Nord Kivu, ad essere l’epicentro della guerra tra la formazione jihadista degli Adf e l’esercito governativo.

©Marco Gualazzini/InsideOver/ Contrasto

Il bailamme che sveglia e infetta di una vitalità febbrile il centro cittadino nel giorno di mercato è stato sovvertito da un silenzio inquietante. Nel vicino villaggio di Mutuej, nella notte, è stato compiuto un massacro da parte di una colonna islamista e la notizia, che si diffonde in breve tempo attraverso le frequenze delle radio locali, paralizza e ammutolisce il capoluogo. Le strade vengono subito occupate dai soldati governativi che immediatamente allestiscono posti di blocco, dispongono i blindati, effettuano perquisizioni e controllano ossessivamente i documenti: tutti imbracciano i kalashnikov, alcuni celano la tensione dietro le scure lenti dei Ray-Ban, altri invece la ostentano, appoggiando l’occhio nella scanalatura del mirino e tenendo sotto tiro chiunque si aggiri per le vie di Beni.

 

Per avere piena comprensione di ciò che è avvenuto occorre dirigersi all’obitorio dove si rimane sconvolti di fronte al delirio di odio che è stato perpetrato. Dozzine di corpi sono ammassati nella piccola camera mortuaria. Alcuni hanno impressi gli inequivocabili segni dei colpi degli Ak-47, altri sono stati mutilati con i machete, altri ancora barbaramente decapitati. La commistione tra l’afrore di morte e l’umidità rende l’aria irrespirabile ma, nonostante ciò, centinaia di persone, stravolte e immobili, vegliano le salme. «Non ne possiamo più! Ogni giorno avvengono massacri e il mondo dov’è? Ci mandate sacchi di farina anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a queste stragi. Noi vogliamo soltanto la pace»: mentre il parente di una vittima sfoga la sua collera demolendo le consunte e sfiduciate parole d’ordine della carità internazionale, intanto gli infermieri trasportano dei cadaveri appena rinvenuti nella boscaglia.

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Due barellieri avanzano lentamente: il lenzuolo che copre la salma che stanno trasportando scivola e, in quel momento, si svela il corpo di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, con la testa riversa e la gola recisa. Un silenzio assoluto, livido di paura e impotenza, cala su una folla attonita e sconvolta che osserva quell’ennesimo assassinio senza ragione e senza risposte. Si odono solo i rintocchi ferali delle campane dell’ospedale che, oltre a informare la comunità della tragedia, forse suonano anche per esortare Dio a essere testimone delle azioni dell’uomo e, nel vederle, soffrire per la sua creazione.

 

Quanto avvenuto nel piccolo villaggio della Repubblica democratica del Congo è infatti solo l’ultimo di una serie di massacri perpetrati dagli Adf, Allied democratic forces, un gruppo jihadista, nato in Uganda e che nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh, ribattezzandosi Iscap: Provincia dello Stato islamico in Africa centrale. I ribelli che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti e reclutamento di bambini soldato, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali del Paese ma, secondo analisti e giornalisti locali, il vero obiettivo, più che la guerra santa, sarebbe quello di mettere le mani sulle ricchezze del Congo.

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La formazione terroristica è passata alla ribalta delle cronache perché è una delle prime formazioni di matrice islamica ad aver dato vita a una ribellione in Congo ma, soprattutto, perché è il gruppo più spietato presente nel Paese e che fa dell’uso sistematico della violenza contro i civili lo strumento per prendere controllo del territorio. Per provare a respingere l’avanzata delle bandiere nere l’esecutivo congolese ha chiesto supporto al governo dell’Uganda che, da dicembre, ha inviato le proprie truppe in appoggio a quelle di Kinshasa. Nelle province orientali dello Stato africano però non si annovera solo la ribellione degli jihadisti: sono oltre 130 le formazioni armate e, da aprile, nella parte meridionale del Nord Kivu, è divampata la guerriglia del gruppo filo-ruandese M23 che nel 2012 aveva dato origine all’ultimo conflitto su vasta scala in Congo. A causa del cristallizzarsi dei conflitti, si è aggravata anche la crisi umanitaria: i profughi interni, secondo l’ultimo report dell l’Unhcr, son più di 5 milioni e il World food programme ha dichiarato che sono 27 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo, 3,4 milioni i bambini malnutriti e, dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle sole province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1.800, stando a quanto riporta il Kivu security tracker.

 

Tra le vittime della violenza che impera nell’est del Congo si annovera anche l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso a soli 44 anni, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo, la mattina del 22 febbraio 2021 a Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo Goma, mentre stava viaggiando su un fuoristrada del Programma alimentare mondiale all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Pam. Secondo le ricostruzioni e le dichiarazioni rilasciate dalle autorità congolesi si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto finito tragicamente, ma molti interrogativi e ombre ancora avvolgono la vicenda. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei Caschi Blu in Congo) non sarebbe stata preventivamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere.

 

La figura del diplomatico sarà ricordata anche da Papa Francesco durante il suo viaggio nel Paese africano, programmato a luglio e posticipato per motivi di salute. Il Pontefice ha annunciato che celebrerà una messa a Chegera, proprio vicino al luogo in cui si è registrato il tragico agguato. Nella visita del Santo Padre in Repubblica democratica del Congo, a 42 anni esatti da quella compiuta da Giovanni Paolo II, missionari e vescovi locali hanno visto la ferma volontà da parte di Francesco di esporsi in prima persona perché la violenza cessi nella nazione. Il Papa negli anni ha infatti più volte invitato a pregare per il Congo denunciando anche lo sfruttamento del sottosuolo che alimenta gli endemici conflitti.

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L’ex Zaire, pur occupando il 175esimo posto su 189 Paesi nell’Indice dello sviluppo umano, è una delle nazioni maggiormente ricche di materie prime al mondo. Qui si trovano metà dei giacimenti planetari di cobalto; l’ex colonia belga è il quarto produttore di diamanti, possiede l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan oltre a immensi giacimenti di rame, uranio, oro, cassiterite e petrolio. Ed è proprio questa ricchezza ad aver attirato gli appetiti di potenze internazionali e locali ed essere alla base delle guerre che dal’96 ad oggi hanno insanguinato la regione provocando oltre 6 milioni di morti.

 

«Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo. Il popolo congolese muore di fame e stenti per arricchire il resto del mondo. Questo è il grande paradosso del mio Paese». Le parole di Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu, anticipano quanto si scopre all’indomani nelle miniere di cassiterite di Nyabibwe, nel Sud Kivu, dove, nella cornice di un paesaggio empireo, tra montagne e foreste smeraldine, si consuma un inferno terreno. Centinaia di persone lavorano nelle cave, senza sosta, per pochi dollari al giorno. Un gruppo di donne caracolla dal pendio di una montagna trasportando gerle che pesano più di 50 chili; dei bambini, badili alla mano, setacciano per ore, con i piedi nell’acqua, il materiale estratto dalle miniere separando i minerali dalle pietre grezze; uomini dai volti deformati dalla fatica, con le mani granitiche e gli occhi gonfi, scavano senza sosta e senza nemmeno la consolazione di un raggio di sole, nella speranza di trovare una nuova vena. I minatori, che spesso muoiono sepolti sotto i crolli improvvisi, vengono pagati in base a quanto estraggono e se al termine della giornata non trovano nulla, non percepiscono nessuna paga.

 

Da decenni il popolo congolese, sotto il maglio dell’indifferenza globale, balsamo per coscienze e interessi, è costretto quindi a calarsi continuamente nelle miniere e a precipitare negli abissi di uno sfruttamento talmente disumano e inintelligibile che non consente né di vivere e neppure di morire, ma solo di consumarsi poco a poco, nelle viscere di una terra che appartiene a tutti, eccetto che ai congolesi.