Ridotto allo stato laicale, sposa anche sacerdoti e suore. Le gerarchie gli hanno imposto il silenzio. Ma dal 1971 la sua comunità a Pinerolo è un punto di riferimento. “L’ascolto di un coetaneo in seminario mi ha guarito dal pregiudizio” (foto di Simone Cerio)

La rivoluzione di don Franco Barbero, sacerdote di 83 anni, gli ultimi venti dei quali fuori dalla gerarchia cattolica romana, è tutta racchiusa nella sua biblioteca: «Ho contato 14mila libri in tutto», ammette. Non c’è metonimia più calzante degli scaffali vertiginosi in cui si alternano i commenti ai Salmi di Gianfranco Ravasi alla “teologia ribelle” di Hans Küng per descrivere la vita vorticosa del primo presbitero italiano che ha prestato ascolto e dato una casa ai cristiani Lgbt+, orfani non solo di genitori troppo intransigenti, ma della chiesa stessa. Dal 1971, anno di fondazione della prima comunità di base per credenti omosessuali, don Franco dice loro che Dio, il padre dei padri, non li ha mai abbandonati, «malgrado il vescovo ci definì una comunità di “fuori posto” quando, nel 1988, chiedemmo di incontrarlo». Le frizioni con la gerarchia arriveranno, però, dopo: «Negli anni Sessanta, la parola gay era innominabile. Per questo, quando decisi di trovare uno spazio in cui poterci incontrare, all’affittuaria dissi che avrei accolto ragazzi un po’ particolari», spiega, pensando alla prudenza di allora quale sorella stretta del coraggio. 

© simone cerio

Presto il piccolo appartamento in corso Torino, nel cuore di Pinerolo, sarebbe diventato l’occhio di un ciclone che avrebbe scosso anche il Vaticano. Il 25 gennaio 2003, con un provvedimento della Congregazione per la dottrina della Fede firmato dall’allora prefetto Joseph Ratzinger, papa Giovanni Paolo II ridusse don Franco allo stato laicale, con una sentenza che escludeva la possibilità di appello: «Mi temevano perché io, in coscienza, avrei continuato a fare il prete. Ai funzionari che mi giudicarono, anzi, rivelai che, nel giro di una settimana, avrei sposato due donne».

 

Vent’anni dopo, don Franco non ha perso quell’ironia ai limiti del provocatorio, che ammette di ereditare da Cristo: continua a sposare coppie Lgbt+ e spesso è invitato in gran segreto a matrimoni fra preti cattolici: «Alcuni di loro continuano ancora il ministero di parroci. E io li ammiro, perché hanno il coraggio di vivere in libertà di coscienza unendo la missione sacerdotale alla loro vita affettiva e sessuale».

 

Sessant’anni fa per lui, formatore in seminario, non era così scontato: «Era il 7 dicembre 1963, e un ragazzo, mio coetaneo, mi confessò con coraggio di amare un altro uomo. Sarà il primo dei nostri incontri, conoscerò il suo compagno, e l’ascolto della loro esperienza di autentico amore mi guarirà dal pregiudizio». È il primo incontro a cuore aperto che don Franco fa con la vita incarnata nella quotidianità di vite sospese, quelle che lo porteranno, venti anni più tardi, ad organizzare con Ferruccio Castellano il convegno europeo su “Fede cristiana e omosessualità”.

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Nel 1964 negli Usa il titolo VII del Civil rights act sancisce il divieto di discriminazione sessuale, ma al di qua dell’Atlantico, nel «lago di Tiberiade del Mediterraneo», società e cultura sono ancora inibiti dal colpo di frusta del fascismo. Don Franco, però, si mette in ascolto e decide di incontrare un giovane Franco Basaglia, fresco di nomina a direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia: «Io gli parlavo del Vangelo di Marco e lui m’invitava a curare l’ascolto degli altri». Si respirano i prodromi di quel cammino che portò allo smantellamento dei manicomi e a un ripensamento dei servizi territoriali per la salute mentale grazie alla legge 180/1978. Ma il percorso non è semplice se, poco prima dell’entrata in vigore della Legge Basaglia, sulle colonne de La Repubblica si racconta dello studente partenopeo Carlo Di Marino che, uscito dal manicomio di Villa Chiarugi dove era stato sottoposto a elettroshock per la sua omosessualità, denunciava famiglia ed équipe medica per i trattamenti disumani a cui era stato sottoposto: «Essere omosessuali non vuol dire essere pazzi», disse.

 

Laddove la società internava, don Franco creava uno spazio di accoglienza, e lo fa mostrando i libri di Edward Schillebeeckx, Karl Rahner e Marie-Dominique Chenu, i teologi protagonisti del cammino di rinnovamento di quella «chiesa coraggiosa» che volle conoscere personalmente a Nimega, dove tra 1964 e 1965 erano in corso i lavori preparatori per la stesura del catechismo della chiesa olandese: «Lì ho visto una chiesa che metteva le persone al centro, che discuteva con libertà su tutto, compresa la presenza di donne nel ministero. Io venivo dalla chiesa del dogma e ho trovato una chiesa dell’ascolto, che non parlava di infallibilità, ma di ricerca; non di potere, ma di servizio».

 

Al di qua delle Alpi, però, non c’è quel vento di rinnovamento per lui, che comincia a vedere nella chiesa di Roma l’atteggiamento intransigente dei padroni delle fabbriche. Nel 1967 paga le sue aperture in campo dottrinale con il divieto d’insegnamento e il trasferimento in una parrocchia periferica. Due anni dopo sarà processato per la sua militanza accanto agli operai: «Avevo preso le parti degli emarginati delle fabbriche. Erano gli anni della migrazione dal sud Italia e trovavo Gesù fra gli esclusi». Sono passati anni dall’ascolto di quel ragazzo e al suo volto se ne sono aggiunti altri, inclusi quelli di sacerdoti e suore che lo contattano in anonimato: «Avvertivo nei loro occhi un disagio, che poi diventava anche il mio. Poi trovavano un luogo in cui parlare con franchezza di tutto, senza essere condannati dalla comunità. Noi non facevamo distinzione tra omosessuali o eterosessuali, separati o divorziati, uomini o donne» puntualizza lui, che alla parola coming out preferisce il verbo riflessivo «svelarsi», più idoneo a descrivere quel guizzo dello sguardo contemplativo verso se stessi che rivela la sindone della nostra identità, come il Cristo dormiente all’alba della sua risurrezione.

© simone cerio

Don Franco è ancora presbitero quando si avvicina al dramma di chi, dall’interno della chiesa cattolica, gli chiede aiuto: «Ho accolto preti, suore, religiosi impauriti: alcuni mi hanno confidato i loro dolori, altri si sono tolti la vita. La cosa che mi ha rattristato di più è stato vedere che dovevano vivere nascosti, controllati, indotti a fare il doppio gioco. Ma che senso ha avere un amore nascosto?».

 

Nel cuore dell’epidemia di Aids, si occupa di alcuni sacerdoti ammalatisi dopo aver avuto rapporti non sicuri. Eppure, quanto più si avvicina alla carne sanguinante della chiesa, tanto più lo allontanano le gerarchie ecclesiastiche: «Nessuno ti tocca se ti occupi di tossicodipendenza, di mafia, di lotta non-violenta. La gerarchia scatta quando vai a toccare la sacralità del suo potere, quando si trasgrediscono le regole ecclesiastiche che escludono i divorziati o i gay e le lesbiche dalle nozze cristiane». Alcune tra queste testimonianze sono venute alla luce, confluite nel volume “Amori consacrati” (Gabrielli editori): «C’è tanto coraggio in loro, che hanno scelto di mettere al primo posto Dio e la preghiera e sono andati oltre le barriere poste dall’istituzione. La persona possiede una libertà che va oltre qualsiasi istituzione, e la libertà è come un mattone che si sottrae al palazzo». Molti di loro sono ancora dentro la chiesa, si ghettizzano, sviluppano una schizofrenia che permette loro di vivere in una realtà ecclesiale dove la sessualità è ancora l’elefante nella stanza.

 

Negli Usa, Andrew Sullivan, giornalista naturalizzato americano, ne ha trattato ampiamente sul New York Magazine. Secondo Sullivan, le inchieste indipendenti riportano che, nel 2019, il 15 per cento dei 37mila sacerdoti statunitensi si è dichiarato omosessuale: «Dalle mie ricerche emerge che sono intorno al 30-40 per cento tra i diocesani e molti di più – almeno il 60 per cento – in ordini religiosi come i francescani e i gesuiti». In Italia mancano i dati. Andrea Grillo, il teologo dell’Ateneo Sant’Anselmo di Roma che ha aiutato Papa Francesco nella recente riforma liturgica, autore del recente saggio “Cattolicesimo e (omo)sessualità” (Morcelliana editore), spiega: «Di fronte alle vite omoaffettive che mettono radici e che vivono la fedeltà, la stabilità e la generosità, la chiesa deve precisare la propria disciplina e la propria dottrina, deve superare anzitutto la lettura della omosessualità come negazione della differenza e della trascendenza e uscire da una lettura del fenomeno come “vizio della castità”. Il resto verrà di conseguenza», evidenziando il paradosso di una chiesa che accoglie tutti, ma che nei suoi documenti ecclesiali - come la lettera Persona Humana del 1975 - qualifica l’orientamento omosessuale «una minaccia per la vita e il benessere di un gran numero di persone».

 

Per aver parlato di «dono dell’omosessualità» al Giubileo del Duemila, don Franco è invitato a ritrattare: «Non l’ho fatto, anzi ho risposto che bisogna vivere la propria vita senza chiedere permesso». Alle proposte avanzategli dalla chiesa cattolica e ortodossa in cambio del suo silenzio, ha risposto con un sereno diniego: «La mia chiesa è dei poveri, invece nelle gerarchie vaticane ho visto una chiesa che badava a farmi tacere piuttosto che ascoltarmi». Oggi don Franco non conta le norme a cui ha trasgredito. Per lui conta solo l’amore. Lo riafferma con l’entusiasmo di un giovane prete nel cuore di Pinerolo, divenuta l’ombelico di un mondo nuovo.