Prendi un ragazzo che ama i calcoli e l’informatica. Fallo crescere circondato da un immaginario che privilegia disegni geometrici, costruzioni astratte, mosaici non figurativi, decorazioni che ripetono all’infinito le stesse forme, che creano caleidoscopi a partire dalle linee più semplici. Poi fagli sorvolare due continenti e un oceano, e mandalo da Istanbul a Los Angeles a studiare informatica, intelligenza artificiale, machine learning all’Ucla. Il risultato è Refik Anadol: un artista unico al mondo, considerato il re di quelle opere digitali che sono l’ultima tendenza del mondo artistico.
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In questo periodo in Europa il 37enne Anadol è continuamente protagonista di mostre. Nella Grand Nef del Centre Pompidou di Metz c’è la sua “Machine Hallucinations - Nature Dreams”, costruita su 200 milioni di immagini legate al mondo della natura. A Barcellona è finita da poco l’esposizione in Plaça de Joan Coromines, “DïaloG”, grande installazione interattiva sui temi dell’identità, dell’alterità e dell’immigrazione realizzata insieme a Maurice Benayoun. Anadol sarà presente a Milano al meeting su “The new atlas of digital art” al Meet Digital Culture Center dal 23 al 25 giugno. Mentre dal 15 luglio all’11 dicembre sarà in mostra un suo lavoro realizzato secondo la “special commission” che la Triennale di Milano ha affidato ad Anadol e ad altri tre artisti intorno al tema dell’esposizione, “Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries”.
A Firenze, nella rassegna in corso a Palazzo Strozzi che fa il punto sulla rivoluzione artistica digitale, Anadol è presente con una installazione site specific realizzata insieme al suo team: per costruire quelle che lui definisce “sculture di dati”, l'artista collabora con architetti, musicisti, programmatori e neuroscienziati.
«Nella mia attività artistica», spiega, «io uso archivi storici disponibili al pubblico. Per palazzo Strozzi abbiamo sperimentato con un dataset basato su migliaia di dipinti realizzati tra il Quattordicesimo e il Diciassettesimo secolo».
In tutto, i quadri esaminati sono stati 12.335: «Con l’aiuto dell’intelligenza artificiale abbiamo processato una quantità enorme di dati. In pratica, abbiamo cercato di immaginare quale sarebbe l’aspetto di quadri del Rinascimento osservati collettivamente dal punto di vista di una macchina».
Di fronte agli occhi del visitatore, nel cortile del palazzo rinascimentale, si muove una composizione magmatica su uno schermo a led di 9 metri per 6: frammenti di figure vagamente antropomorfe si trasformano lentamente mentre i colori – soprattutto gialli, rossi, ocra - si evolvono di sfumatura in sfumatura. Si può restare per ore a farsi ipnotizzare da questi “Machine hallucinations- Renaissance dreams”, un disegno che cambia sempre e resta sempre uguale. Oppure si può salire ai piani superiori, dove la mostra “Let’s get digital!” prosegue fino al 31 luglio con opere di Anyma, Daniel Arsham, Beeple, Krista Kim e Andrés Reisinger. Un’occasione per farsi un’idea di cosa sono “NFT e nuove realtà dell’arte digitale” (il sottotitolo della mostra”): i “Non fungible tokens”, opere d’arte virtuali ma certificate nella loro unicità tramite blockchain, che segnano record sempre nuovi nelle vendite all’asta, e stanno rivoluzionando il mondo dell’arte.
Sono opere difficili da descrivere, che creano nello spettatore un’esperienza impossibile da raccontare. Anadol le spiega così: «Dal 2016 conduco una ricerca interdisciplinare sulla relazione tra la mente umana, l'architettura e l'estetica per ipotizzare risposte a questa domanda: se le macchine possono "imparare" o "elaborare" memorie individuali e collettive, possono anche sognare o avere allucinazioni? Prendo i dati che fluiscono intorno a noi come il mio materiale primario, e la rete neurale di una mente computerizzata come il mio collaboratore. Mi piace dire che dipingo con un "pennello pensante" mentre rifletto su nuove forme di narrazione dei ricordi dell'umanità in spazi fisici e virtuali. Questi sogni si presentano sotto forma di sculture site-specific, performance audiovisive dal vivo, installazioni immersive e NFT».
Il primo incontro con l’arte digitale Anadol lo ha avuto quando ancora studiava a Istanbul: «Nel 2008, durante il mio ultimo anno di liceo, ho assistito a una conferenza di Koray Tahiroglu, artista e professore: l’argomento era un software chiamato PureData. Eravamo solo in tre nell’aula: uno studente del dipartimento di Musica, un altro di Informatica e io di Visual Communication Design. È stato durante quel corso che ho coniato il termine Data Painting, e ho anche approfondito VVVV, un software che da allora utilizzo in quasi tutti i miei lavori. Più tardi, nel 2012, durante i miei studi presso l'UCLA, ho iniziato a lavorare su Data Paintings e Sculptures grazie a Casey Reas, un pioniere in questo campo».
Un impulso importante è stato il fatto di studiare proprio a Los Angeles, dove negli anni Settanta è nato il movimento “Light and Space”: «Mi piace pensare di far parte della terza generazione di questo movimento: illusioni ottiche, minimalismo e astrazione geometrica erano le loro caratteristiche distintive, e io uso spesso questi elementi nei miei lavori. Con l'ispirazione che traggo da figure pionieristiche come James Turrell, Robert Irwin, Bruce Nauman, Larry Bell e Dan Flavin, cerco di comprendere e spiegare la relazione tra dati, intelligenza artificiale e spazio con le tecnologie della luce e le pratiche artistiche immersive di oggi. In questo momento, con il mio studio stiamo esplorando la possibilità di trasformare la luce in un messaggio meditativo con l'aiuto dell'intelligenza artificiale».
Sul lavoro di Anadol hanno influito anche esperienze personali: durante uno dei suoi viaggi a Istanbul scoprì che suo zio non lo riconosceva più per colpa dell’Alzheimer. L’artista allora cominciò a pensare a come preservare i ricordi personali, «la più preziosa e più privata fonte di informazioni dell’umanità». Con un copricapo collegato con elettrodi ha catturato l’attività celebrale di persone che ricordavano momenti della loro infanzia. E poi ha trasformato quei dati in immagini fluide che si muovevano in modo ipnotico su un enorme schermo a led: un’opera che si intitola “Melting memories”.
«Per me», spiega l’artista, «i dati non sono solo numeri. Li vedo come ricordi, come grappoli significativi di momenti importanti trasformati in entità digitali e archiviati nella mente di una macchina. Credo che quando ci concentriamo sulle memorie collettive, troviamo qualcosa a cui tutti teniamo. In più, dobbiamo considerare che viviamo in un mondo in cui ogni nostra azione è prevista da vari sistemi, software e hardware. Il libero arbitrio e la privacy sono assolutamente a rischio. Inoltre ci sono malattie mentali incurabili che possono distruggere i nostri ricordi all’improvviso. Utilizzando le memorie collettive dell'umanità, però, possiamo immaginare un nuovo sogno condiviso che può aiutarci a guarire e a migliorare tutti insieme».
Un risultato che nasce dal lavoro di una grande équipe multiculturale: «Il nostro Studio comprende artisti, architetti, data scientist e ricercatori di diversa estrazione professionale e personale. Proveniamo da 10 paesi diversi, parliamo correntemente 14 lingue e abbiamo un'età media di 28 anni. Il fatto di essere una squadra multinazionale è fondamentale per il nostro lavoro: e ci permette di fare ricerche entusiasmanti con scienziati e ricercatori di tutto il mondo. Il nostro sogno? Creare arte per tutte le età e culture».