Quando nel 2004 Licia Troisi pubblica il suo primo romanzo, “Nihal nella Terra del Vento”, primo volume delle cronache del mondo emerso, è già laureata in Fisica all’università di Roma La Sapienza e ha ventiquattro anni. Nihal ha le orecchie a punta e quei capelli blu che tanto adesso si vedono per strada, perché il fantasy ha sempre insegnato che il futuro è una faccenda di immaginazione.
Da lì a oggi Troisi si è sposata, ha avuto una figlia, ha preso il dottorato, sempre in Astrofisica, e dal 2018 conduce Terza Pagina, il programma di approfondimento culturale di Rai 5. Troisi, come non sempre succede, che si scrivano i libri o no, non ha mai smesso di pensare, di studiare, di vestirsi da fumetto e da guerriero, di esperire quell’immaginazione che sta alla base – o così mi è sempre sembrato – delle discipline scientifiche.
Della fisica, della matematica, della chimica, di quelle scienze che avendo a disposizione prima pochi dati e poi moltissimi, sempre di più, devono sforzarsi volta per volta di dare e ridare una forma al mondo. Perché tutti possiamo viverci dentro.
Le scienze somigliano al racconto, il racconto somiglia alle scienze. Nel senso che funzionano allo stesso modo. Troisi con il suo “La sfrontata bellezza del cosmo” (Rizzoli) ha vinto la settima edizione del premio Asimov ex-aequo con Agnese Collino. Il riconoscimento, giunto alla sua settima edizione, è promosso dall’Infn e ha coinvolto quest’anno più di dodicimila studenti e studentesse delle scuole secondarie di secondo grado. Obiettivo è diffondere la cultura scientifica incoraggiando relazioni e scambi tra scuola università e ricerca.
Oltre a queste caratteristiche di scambio e interazione, Troisi assomma in sé anche una frequentazione e una pratica di scrittura di genere non realista. È appena uscito, sempre per Rizzoli, il primo volume de “Le guerre del multiverso”, intitolato “Poe, la nocchiera del tempo”.
Qual è il rapporto di uno scienziato e una scienziata col gioco?
«Per essere scienziati in qualche modo occorre rimanere un po’ bambini, almeno sotto certi aspetti. La capacità di fare domande banali ma seminali, di stupirsi per quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni sono caratteristiche che leghiamo all’infanzia, ma che sono indispensabili per essere scienziate e scienziati. Il gioco rientra in quest’ottica; in fin dei conti, uno scienziato è qualcuno che ha portato il gioco a un livello superiore, e non ha mai smesso di divertirsi con la natura. Sperimentare è giocare con le leggi dell’Universo, e spesso la scienza viene raccontata come un puzzle, un enigma che cerchiamo di risolvere. Senza contare che un po’ di sano divertimento fa bene in tutti i campi, scienza compresa».
Che legame c’è, se c’è tra scienza e fantascienza?
«Credo siano strettamente connesse. Da un lato, la fantascienza prende spunto dalla scienza, sia da scoperte effettivamente avvenute sia immaginandone di altre, che comunque affondano le radici in quel che sappiamo. In qualche modo la fantascienza “evolve” la scienza. Quest’ultima, dal canto suo, si ispira alla fantascienza, sia per quanto riguarda la tecnologia che certi ambiti di ricerca; la possibilità di visitare altri copri celesti, l’esistenza di forme di vita aliene, sono cosa che abbiamo immaginato con la fantascienza, prima di realizzarle o metterci a cercarle».
C’è stato un momento, o un intervallo, mentre studiava fisica, in cui ha capito che dalla cinematica e dalla dinamica di questo mondo poteva immaginare cinematica e dinamica, e poi vite in altri mondi?
«In verità la scienza e la narrazione sono due cose che hanno proceduto parallelamente nella mia vita. Da un lato mi è sempre piaciuto inventare storie, dall’altro la scienza ha sempre fatto parte della mia vita, grazie ai miei genitori che ne sono entrambi interessati e hanno una formazione scientifica. Quindi in qualche modo per me è stato naturale mettere insieme le due cose, e quasi subito; è vero che il mio è stato un percorso di lento avvicinamento tra scienza e narrativa, fino all’approdo alla fantascienza, ma fin dall’inizio ho sempre trovato il modo di inserire qualcosa di scientifico all’interno dei miei mondi, fosse solo un riferimento ai miei studi di astrofisica o direttamente mettere al centro della trama un oggetto astronomico».
Il premio Asimov, che ha vinto quest’anno, ex-aequo con Agnese Collino è per il suo libro “La sfrontata bellezza del cosmo”. Asimov era uno scienziato che scriveva fantascienza. Che rapporto c’è, se c’è tra fantascienza e divulgazione?
«Anche in questo caso mi pare sia abbastanza stretto. Le storie, un po’ per tutti gli esseri umani, chi più chi meno, sono il modo più diretto e divertente di apprendere. Chi ha una propensione narrativa è facilitato quando fa divulgazione, o, almeno, per me è stato così. La fantascienza, che ha comunque radici solide nella scienza, è un fantastico ponte tra il desiderio di sentirsi raccontare una bella storia e quello di imparare anche qualcosa su come funziona il nostro universo».
Che matematica e fisica ha imparato a scuola? E soprattutto come l’ha imparata?
«Fino alle superiori ero convinta che la matematica fosse una certa cosa, verso la quale mi sentivo portata e che mi divertiva. Fino al ginnasio l’ho studiata abbastanza bene e con una certa continuità. Al liceo invece è stato un disastro, abbiamo fatto poco e male e ho accumulato un sacco di lacune. Il risultato è che quando sono arrivata all’università mi mancavano grossi pezzi di conoscenza per capire quello che il professore diceva durante le lezioni di analisi. Percepivo una vera e propria discontinuità tra la materia che avevo studiato fin lì e quella che dovevo imparare ora, mi sembrava di essere stata presa in giro fino a quel momento. Il risultato è che alla fine, come tutti i fisici, la matematica per me è diventata solo uno strumento, usato anche con una certa leggerezza. Mi domando spesso se sarebbe cambiato qualcosa se l’avessi studiata meglio in quei tre anni».
Perché una bambina o un bambino dovrebbero scegliere di studiare quelle che si chiamano scienze esatte o scienze dure?
«Perché l’Universo, a tutti i livelli, è un posto incredibile, pieno di meraviglia, di cose paradossali e di domande ancora senza risposta. Perché per intraprendere una carriera scientifica non è necessario essere superuomini o superdonne, ma solo appassionati di quel che si fa determinati ad arrivare fino in fondo. Perché non è vero che sono cose aride, che sono appunto il regno delle cose “esatte” senza possibilità di creatività, di eccezione, di sfuggire alla regola, ma che c’è tantissimo spazio per le idee nuove e per il divertimento».
Qual è, per lei, il rapporto tra scienza e immaginazione? E perché l’immaginazione la associamo più a qualcosa che non presuppone un linguaggio formalizzato?
«L’immaginazione e la creatività sono elementi fondamentali all’interno della ricerca scientifica. Einstein raccontava che la prima idea della relatività generale fu una fantasia che ebbe quando aveva sedici anni, e immaginò di viaggiare a cavallo di un raggio di luce, chiedendosi poi cosa avrebbe visto. Rovelli stesso ne “L’Ordine del Tempo”, dice che “la capacità di comprendere prima di vedere è il cuore del pensiero scientifico”. Prima dell’esperimento, dell’osservazione, c’è sempre un atto immaginativo che ti porta a cercare di capire come funzionano le cose. Abbiamo quest’idea che l’immaginazione sia qualcosa di totalmente libero, refrattario alle regole, che in parte è anche vero. Quando immagini, in effetti, non ti poni limiti. Ma quei limiti sono necessari quando puoi vuoi dare forma alla tua immaginazione, che si tratti di progettare un telescopio, una sonda, un esperimento, ma anche scrivere un libro. Crediamo che l’immaginazione non abbia a che fare con la scienza perché spesso non sappiamo quanta disciplina, quanta regola ci sia anche nella scrittura e nell’arte in generale».
Perché molti concetti fisici, almeno come nomi di concetti, sono passati nel linguaggio comune?
«Perché la fisica ha più volte capovolto quel che credevamo di sapere rispetto al mondo in cui viviamo; da Galileo che toglie la terra dal centro dell’Universo, a Einstein che butta giù l’ultimo tabù, quello di un tempo immutabile e fisso, la fisica è entrata a gamba tesa nel modo in cui consideriamo noi stessi e il nostro posto nel mondo. Abbiamo percepito questi concetti non come qualcosa di distante, ma che ci toccava da vicino, hanno cambiato il nostro modo di pensare ed ecco che sono entrati anche nel linguaggio comune».